“Se la natura condanna a morte l’uomo, almeno l’uomo non lo faccia”. Sul presunto ‘omicidio’ di Albert Camus

“Se la natura condanna a morte l’uomo, almeno l’uomo non lo faccia”. Sul presunto ‘omicidio’ di Albert Camus

30 Aprile 2014 0 Di Ettore Maria Colombo

Se la natura condanna a morte l’uomo, almeno l’uomo non lo faccia”, diceva Albert Camus.

A cent’anni dalla sua nascita (Algeria, 1913) si torna a parlare del grande scrittore francese, esistenzialista e ‘comunista’, sia pur a modo suo. Si torna a parlare, però, anche della sua morte a causa di un (banale?) incidente stradale in cui Camus perse la vita in Francia, nel 1960. Ed è qui che, tanto per cambiare, i conti non tornano. Il ‘guaio’, al solito, è tutto scritto, interpretato e gettato in pasta all’opinione pubblica dai ‘giallisti’ della domenica di casa nostra, più che da rigorosi storici francesi.

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L’homme qui pense. Una classica immagine dello scrittore esistenzialista Albert Camus

Come accettare, infatti, la triste e ordinaria idea che un premio Nobel della Letteratura, ma soprattutto l’indimenticabile autore di libri fondamentali come Lo straniero (1942) e La Peste (1947), ma anche di altrettanti piccoli capolavori come Caligola, L’uomo in rivolta, Questa lotta vi riguarda, etc, possa essere ‘davvero’ morto ‘per caso’, causa incidente stradale, in uno sperduto paesino francese, Villeneuve-la-Guyard, il 4 gennaio del 1960? Impossibile, appunto. ‘Gatta’ ci deve, per forza, ‘covare’.

Ed ecco che, alla bisogna, risponde uno (sino ad oggi) semi-sconosciuto autore italienne, Giovanni Catelli, che ha pubblicato – giustamente in occasione della ricorrenza dei cent’anni dalla morte, ‘non sia mai’ che qualcuno ci caschi – un libricino che, già dal titolo, promette sfracelli. Camus deve morire (Nutrimenti, 192 pp, 15 euro) s’intitola la fatica dello ‘slavista’ Catelli.

Quale la tesi, a dir poco clamorosa e rivoluzionaria del libro in questione? Semplice. Ad ammazzare Camus è stato niente popò di meno che il Kgb. Insomma, la lunga mano di Stalin e Beria, il terrore dei controrivoluzionari e antisovietici russi come della Cia, dell’M-5, dell’Oass e di tutti i servizi segreti ‘atlantici’ e occidentali (il Kgb, appunto, erede di Ceka e Nkd) avrebbe avuto l’ordine (lo provano, è ovvio, “nuovi clamorosi documenti”) di sopprimere la vita al povero Camus. Disperato e triste di suo, ma più per i suoi diverbi con gli esistenzialisti (e comunisti…) ‘ortodossi’ alla Sartre che per le sorti ‘magnifiche e progressive’ del socialismo reale sovietico.

A voler essere onesti, la tesi del ‘gomblotto’ è adombrata anche nella monumentale – e a sua volta fresca di stampa – biografia (potremmo dire ‘definitiva’) di Camus. Parliamo di A. Camus. Una vita per la verità di Virgil Tanase (Castelvecchi, pp. 284, 22 euro), ma poco più di un accenno.

La ‘tesi’, da feuiletton fumettistico più che da ricostruzione storica e quasi del tutto priva di solidi argomenti, di Catelli è, invece, presto detta: il Kgb avrebbe ucciso Camus perché egli avrebbe ‘alzato la voce’ contro l’invasione dei carri armati russi in quel di Budapest (rivolta d’Ungheria). Ora, al di là del fatto che la soppressione della ‘controrivoluzione’ data 1956 e Camus è morto nel 1960 (vendetta a scoppio ritardato? Suvvia…), se il Kgb avesse dovuto ‘uccidere’ tutti gli intellettuali comunisti o ex tali che abiurarono, abbandonarono il movimento comunista internazionale e la fedeltà al Pcus negli anni’50-’60, avrebbe dovuto commettere, più che alcuni omicidi ‘politici’ mirati, una vera e propria ‘strage’ di massa…
Conviene, dunque, lasciare Camus alla sua storia, alla sua vita, ai suoi libri e rileggere, se proprio si vuole approfondire il Camus più ‘politico’ volumi poco (o meno) noti dei suoi romanzi-capolavoro ma altrettanto belli come, appunto, Questa lotta vi riguarda (Bompiani, semi-inedito che riporta le corrispondenze scritte da Camus per il quotidiano clandestino Le Combat nel 1944-’47, durante la lotta di resistenza francese al nazifascismo) o come L’uomo in rivolta (Bompiani 2002 o Einaudi 2011), libro decisivo.


NB: Questo articolo è stato pubblicato nelle pagine culturali del quotidiano Libero il 7 novembre 2013