Elezioni presidenziali/6. Leone o di equilibri di Palazzo poco ‘avanzati’ (1971)

6 Gennaio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

Proseguiamo, con un lungo excursus sulle elezioni presidenziali più’ lunghe della storia repubblicana, quelle che portarono il Dc Giovanni Leone al Colle (1971), la galleria di rievocazioni delle lotte e delle votazioni per il Quirinale. Nelle altre puntate, tutte rintracciabili su questo blog, abbiamo parlato di 1) De Nicola (1946), 2) Einaudi (1948); 3) Gronchi (1955); 4) Segni (1962); 5) Saragat (1964). Leone, oltre che per la sua elezione (la più lunga, ad oggi: XXIII scrutini), è passato alla storia per scandali, gaffes e… corna.

Il formidabile biennio (1968-’69) che cambia tutto. Anche in Italia

Nel 1968-’69 in Italia, come nel Mondo, succede di tutto, dalla contestazione studentesca, che incuba già dal biennio 1966-’67 e che esplode nel 1967, alla contestazione operaia (1968-’69). Solo le Istituzioni repubblicane si accorgono a malapena di quanto avviene nelle piazze. Nella legislatura 1963-’68, il centrosinistra (Dc+partiti laici+ Psi) si era limitato a vivacchiare sotto vari governi. Le elezioni politiche del 1968 non paiono, del resto, registrare un cambio dipasso che sarà epocale. I risultati, anzi, sembrano la testimonianza dell’eterno immobilismo italiano: la Dc risale di poco (39.1%), il Psu (Partito socialista unificato, somma di Psi e Psdi) non decolla e presto si scioglierà (14,5% mentre, alle politiche del 1963, il Psi aveva preso il 13’,8% e il Psdi il 6,1%), il Pci aumenta, ma lievemente, i suoi consensi (26,9%) mentre il 4,4% va al Psiup, gli scissionisti da sinistra del Psi. Certo, nel 1970 vengono varate tre riforme importanti: nascono le Regioni a statuto ordinario, viene introdotto il divorzio per legge (il referendum per la sua abrogazione si terrà nel 1974) e, soprattutto, viene codificato il nuovo Statuto dei Lavoratori, ma la politica è lontana dalla gente (allora dette ‘masse’) e non si accorge che il mondo sta cambiando, velocemente e violentemente.

Giovanni Leone presidente della Repubblica (1971-1978)

Giovanni Leone presidente della Repubblica (1971-1978)

Il clima politico che precede la tormentata elezione Leone (1969-’70).
In una situazione a dir poco drammatica a causa dello scoppio della bomba di piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della nascita della cd. ‘strategia della tensione’, gli esangui governi di centrosinistra teorizzano la lotta agli ‘opposti estremismi’, quello neofascista, di gran lunga il più sottovalutato, e quello delle prime formazioni radicali ed estremistiche nate a sinistra del Pci, pur se ancora ben lungi da intraprendere (ma non dal teorizzare) la lotta armata come sarà con le Br. Nella Dc la contrapposizione, dopo decenni di lotte tra correnti che si contendevano il potere ma non vere e chiare strategie politiche, torna all’essenziale: da un lato la destra (andreottiani, scelbiani, dorotei, il nuovo segretario, Arnaldo Forlani) da sempre diffidente verso l’alleanza con i socialisti e verso politiche di grandi riforme e, dall’altro, una sinistra (morotei, di Base, etc.) che voleva proseguire l’accordo con il Psi ma diffidava dell’irrequietezza e dell’instabilità dei suoi vertici mentre covava, ma solo in parte, il sogno segreto di apertura a un Pci ‘occidentalizzato’ e ‘socialdemocratizzato’ (‘strategia dell’attenzione’ di Moro). Il Psi, dal canto suo, diffida di Moro e gli preferisce governi presieduti da figure scialbe e incolori (Rumor, Colombo) ma provenienti dall’area moderata del partito (i Dorotei). Il Pci, infine, dopo dieci anni di netta opposizione ai governi e alle riforme del centrosinistra, capisce che i tempi stanno cambiando e diventando maturi per il proprio inserimento politico a sostituire una formula di governo ormai logorata. Ma i dirigenti comunisti pensano anche che tale processo non puòrealizzarsi nelle ‘piazze’ ma nella contrattazione parlamentare: lo sostiene la destra (Amendola) e il centro (Longo-Berlinguer) del partito. Fa eccezione l’ala che fa capo a Pietro Ingrao: punta alla ‘democrazia di massa’ e a un raccordo-ricongiungimento con pezzi di sinistra usciti dal Pci (il manifesto). I quali però erano già oltre e predicano, emuli delle assemblee studentesche e operaie, forme di ‘democrazia dei consigli’ o ‘di base’ che avrebbe segnato la nuova stagione sindacale dei metalmeccanici (detta Fmlu).
Si aprono le danze. Dopo sette anni di Saragat, la Dc rivuole il Colle per sé.
Dopo sette anni di Saragat, socialdemocratico che pure coltiva ancora il sogno di una rielezione, la Dc rivuole il Quirinale per sé. Il candidato perfetto, da Indro Montanelli già soprannominato ‘il Rieccolo’, è Fanfani ma per i dorotei e le destre che vogliono rompere con i socialisti e arroccarsi al centro, mentre il candidato ‘segreto’ delle sinistre è Moro, ma nessuno osa farne il nome. Inoltre, alle recenti elezioni amministrative, molti dei voti persi dalla Dc (-7%) sono andati all’Msi (+7%). La destra della Dc, come i dorotei, non vogliono fare altri regali al Pci ma neppure al Psi, alleato quasi dappertutto con i comunisti, nelle grandi città e regioni del centronord nelle ‘giunte rosse’. Leone, memore del ‘supplizio cinese’ di sette anni prima, non si espone, almeno non in prima battuta tanto che quando viene sondato dai maggiorenti della Dc sulle sue ambizioni, nega. Ma è tra i papabili, è chiaro, come pure Moro e Rumor. Poi ci sono i socialisti, dove la corsa è quella di Francesco De Martino, contro un altro eterno candidato (Pietro Nenni) e i socialdemocratici, che puntano ancora su Saragat. La Dc decide con una votazione dei suoi Grandi Elettori a scrutino segreto nella notte tra l’8 e il 9 dicembre: passa Fanfani su Moro. C’è chi dice 50 a 30, c’è chi dice per pochissimi voti. Il voto resterà segreto e le schede vengono bruciate, proprio come in un conclave.
La Dc vota a scrutinio segreto: passa Fanfani contro Moro.
Ricorda Giulio Andreotti: “Io e Forlani, segretario del partito, andammo a trovarlo a Santa Marinella: ‘Stavolta – gli dissi – i voti del nostro gruppo ci saranno tutti anche perché non ci sei tu a organizzare i franchi tiratori… ma socialisti e comunisti non ti voteranno mai”. “Tu pensa ai nostri, al resto penso io”, mi rispose”. Non andò così, e non solo perché Andreotti era il vero, grande, nemico interno di Fanfani o perché su di lui pesava la campagna denigratoria e pesantissima della stampa di sinistra, in particolare dall’Unità e dal ‘manifesto’ che conia l’epiteto del ‘fanfascismo’, ma anche perché a mancargli saranno proprio i voti dei ‘suoi’. Sarà la prima volta, peraltro, in cui la grande stampa non solo giocherà un ruolo nella corsa al Colle, ma ne condizionerà gli esiti: non solo i giornali di sinistra, dall’Unità al manifesto, sono contro Fanfani, lo è anche la solitamente austera La Stampa, diretta dal laico democratico Alberto Ronchey, mentre il Corriere della Sera, diretto dal laico risorgimentale Giovanni Spadolini, gli resta neutrale. Il 9 dicembre, il Parlamento riunito in seduta comune inizia a votare: smetterà solo XXIII scrutini dopo. Folrani, di fronte alla candidatura Fanfani, ormai ufficializzata, sbotta: “Se passa è un miracolo!”. Non accadrà.
La Malfa promette: “romperò i garretti ai due cavalli di razza democristiani”.
Al I scrutinio Fanfani prende appena 384 voti contro i 397 di De Martino, votato compattamente da socialisti e comunisti, i 57 di Augusto De Marsanich (Msi), 49 a Giovanni Malagodi, storico segretario e leader liberale che il Pli si vota da solo come il Psdi con il suo Saragat (45 voti) mentre 57 sono le schede bianche. E’ lo stesso Andreotti a calcolare, malevolo, che a Fanfani mancano una quarantina di voti democristiani. Il nome che aleggia, e su cui i comunisti convergerebbero volentieri, è quello di Moro, ma di lui non vuol sentire parlare il repubblicano Giorgio La Malfa, segretario del Pri. Chiede di trovare un laico o al massimo un cattolico “poco colorito” e, il 20 dicembre 1970, tuonerà nei corridoi di Montecitorio con una frase rimasta agli annali: “Romperò i garretti ai due cavalli di razza”. Si tratta di Moro e Fanfani e, con l’aiuto dei partiti laici e dei franchi tiratori della Dc, La Malfa ce la farà. Un grande elettore anonimo scrive nel segreto dell’urna di vimini: “Nano maledetto/ non sarai mai eletto”. Per Fanfani, la maledizione si ripete ancora.
Scrutinio dopo scrutinio non accade nulla, solo il caos regna sovrano.
Negli scrutini successivi il caos aumenta, poi regna sovrano. In odio a Fanfani, i deputati del manifesto, espulsi dal Pci ed eletti con il Pdup, depositano nell’insalatiera schede con su scritto “Fanfascista” (declinazione del ‘Fanfascismo’) o con la rima baciata: “Maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. I missini annunciano, dal VI scrutinio, che voteranno scheda bianca. I franchi tiratori della Dc non aspettavano altro per confondere le acque. Emergono, e con costanza, però altri due nomi, per la Dc, dietro Fanfani, quelli di Moro e Leone, ma nessuno s’impone. Eppure, c’è anche un problema politico di fondo, nelle trattative in corso tra i partiti, non solo i giochi di Palazzo. I comunisti sono o no pronti per un ingresso in maggioranza? E gli ‘equilibri più avanzati’ di cui parla Moro sono sostenibili per l’Italia nella situazione caotica che vive? Leone inizia a far capire e a far sapere che non è il caso, e in ogni caso, di portare un uomo esponente delle sinistre (Nenni o De Martino) o del dialogo con esse (Moro) al Colle. Serve l’uomo della conservazione e della moderazione. Lui. Leone, dopo la delusione della gara per il Colle persa con Saragat sette anni prima, capisce che bisogna aspettare e non essere candidato troppo presto.
Il clima nella Dc si fa rovente, i voti dei neofascisti dell’Msi diventano ‘appetibili’…
In realtà, il candidato perfetto del fronte anticomunista era proprio Fanfani, ma aveva troppi nemici dentro e fuori la Dc. I maggiorenti democristiani iniziano a convincersi: fallita la candidatura Fanfani, non resta che la candidatura ‘di servizio’ di Leone mentre con Moro si rischia di perdere troppi consensi verso destra. Ed ecco che, magicamente, i voti dei missini diventano necessari. Alla faccia della teoria dell’arco costituzionale, che li escludeva, teorizzata solo sette anni prima con Saragat. E l’Msi è quello neofascista di Almirante che presto subirà una scissione moderata (la Dn). E così, il 12 dicembre, anniversario della (allora fresca di un solo anno) strage di piazza Fontana, appena dopo il V scrutinio, il Msi si dichiara pronto a votare candidati della Dc presentati “in contrapposizione alle sinistre”. La Dc dà prova di tempismo e, dopo il VI scrutino, sospende i voti per Fanfani affidando a una propria delegazione (composta dal segretario Forlani, il presidente Zaccagnini e i due capigruppo, tra cui Andreotti) il compito di valutare con gli altri partiti laici eventuali nuove candidature. Si fa sentire, anche questa volta, il Vaticano: papa Paolo VI, amico di lunga data di Moro, fa comparire editoriali – sempre via Osservatore romano – che propendono apertamente per il vecchio amico. Fanfani, però, non demorde e chiede una ‘verifica’ sul suo nome. Viene compiuta all’XI scrutinio: il target è di 400 voti, ma Fanfani ne prende solo 393 (a tradirlo, tra gli altri, nella Dc, è Forze Nuove, sinistra sociale guidata da Donat-Cattin). La riunione notturna del Grandi elettori della Dc è drammatica: i fanfaniani urlano “Fanfani o morte!”, volano sedie e insulti, i parlamentari dc non hanno potuto più esprimere una preferenza chiara già dal VII scrutinio. A quel punto, Fanfani capisce che anche stavolta non ce la farà più e si ritira. Dal XII scrutinio si riparte con le schede bianche da parte della Dc, seguita a ruota da Pli, Pri e Msi, mentre anche Saragat si ritira. Solo le sinistre continuano a votare compatte, pur essendo passate da De Martino, il cui nome è stato consumato per 21 scrutini, a Nenni: restano convinte che la Dc non eleggerà mai un presidente della Repubblica con l’Msi e che presto uscirà fuori il vero nome che lancerà la Dc e che loro potrebbero votare: Moro.
Moro si rifiuta di patteggiare cariche perfino con i suoi. E la Dc non lo vuole.
E’ lo stesso Moro, in realtà, che si rifiuta di patteggiare con gli altri big diccì la sua elezione, a partire dalla distribuzione delle cariche (presidenza del Consiglio e segreteria della Dc su tutti, poi ministeri, presidenze delle Camere, etc.) ma, politicamente, paga la ‘strategia dell’attenzione’ verso il Pci. La Malfa fa la dichiarazione sui ‘garretti’ da spezzare il 20 dicembre e, con lui, tutti gli altri partiti laici (Pri, Pli, Psdi) offrono alla Dc una terna di nomi (Leone, Rumor, Taviani) che, appunto, non comprende quello di Moro. Tocca ai grande elettori della Dc, di nuovo, decidere. La riunione si tiene il 21 dicembre: dal ligure Taviani all’abruzzese Gaspari si paventa la ‘fine’ della Dc se passasse Moro. Andreotti presiede il seggio della votazioni: Leone passa 50% a 30%. Basta con la pratica estenuante delle schede bianche (al XX scrutinio erano state 546: un record a oggi ineguagliato), dunque. Il 23 dicembre, XXII scrutinio, Leone è cgià onvinto di farcela: scaramantico napoletano com’è quello è il giorno di Santa Vittoria, nome della moglie, porta ‘buono’. Invece non ce la fa: manca l’elezione di un voto (503 contro i 408 di Nenni). Il giorno dopo seguirà l’elezione dal suo ufficio di palazzo Giustiniani in diretta tv e tentennerà prima di accettare.
Modalità di elezione di Leone (XXIII scrutinio, 518 voti, 23 dicembre).
E’ il 24 dicembre, vigilia di Natale, del 1971, quando, al XXIII scrutinio (ancora oggi un record in negativo nella storia delle elezioni di un Presidente della Repubblica…), Leone ce la fa. Su 1008 Grandi Elettori (un’altra prima volta, quella dei delegati regionali che partecipano a un’elezione presidenziale in quanto, prima del 1970, le Regioni a Statuto ordinario non esistevano) e 996 votanti, quorum a 505 voti, Leone prende 518 voti (Dc+Psdi+Pli+Pri+Msi), appena 13 voti più del necessario, contro i 408 voti che vanno a Nenni (Pci+Psi+Pdup-ilmanifesto) mentre 6 voti vanno a Pertini, che in qualità di presidente della Camera legge le schede, 36 sono le schede bianche, 35 quelle disperse e tre quelle nulle.
La sua presidenza, iniziata il 29 dicembre 1971 con il consueto giuramento finirà prima del tempo prestabilito il 15 giugno 1978, data delle sue dimissioni.

Leone immortalato in un suo gesto tipico: le corna...

Leone immortalato in un suo gesto tipico: le corna…

La presidenza Leone: corna, scandali e gaffes.
Napoletano doc (farà le corna anche il giorno dell’elezione), Giovanni Leone (Napoli, 1908 – Roma, 2001), figlio di uno dei fondatori del Ppi, è un illustre docente di procedura penale e un vero principe del foro. Di orientamento monarchico, fascista da giovane, Leone entra nella Dc dal 1944 e diventa deputato già nell’Assemblea costituente (1946). Vicepresidente e poi presidente della Camera (1955-1963), due volte presidente del Consiglio (nel 1963 e nel 1968) ma sempre alla guida di governi da lui stessi definiti ‘balneari’, quando Leone diventa presidente della Repubblica è – ed ecco un’altra prima, e finora unica, volta – senatore a vita, nominato da Saragat, che lo aveva battuto alle elezioni del 1964 al fotofinish, nel 1967 per evidente ‘compensazione’. Leone è un notabile diccì, ma non appartiene a correnti che non siano il suo moderatismo conservatore da buon senso comune e la sua ostentata napoletanità. Scongiuri e “corna” a ogni pie’ sospinto sono il suo tratto più popolare e famoso, come le intemperanze poco protocollari se gioca il Napoli. A 63 anni è anche l’uomo politico più giovane mai eletto a Capo dello Stato.
La sua elezione scatena le sinistre, che pure temevano come la peste l’elezione di Fanfani. Il manifesto lo bolla come “il Segni napoletano” per il determinante appoggio missino. Quando Leone si presenta alle Camere per l’insediamento, i comunisti l’accolgono con lanci di monetine e il fumantino Pajetta scaglia un sacchetto pieno di 10 lire contro La Malfa, antifascista ma grande elettore di un presidente eletto con i voti determinanti dei fascisti. Leone prova a smussare: “Non spetta a me formulare programmi o indicare soluzioni. Solo vigilare sul rispetto della Costituzione” dice nel suo discorso.
Le tante ‘prime volte’ della presidenza Leone.
Leone, nominato senatore a vita Fanfani come fece con lui Saragat per risarcirlo dell’ennesima fregatura nella corsa al Colle, seguirà le sorti di un centrosinistra già in frantumi. La Dc preme per avere elezioni politiche anticipate, quelle del 1972, le prima a memoria di Repubblica, e Leone si adegua, facendo slittare il referendum sul divorzio (si terrà nel 1974). Stessa cosa, dare alla Dc lo scioglimento anticipato, farà nel 1976 quando, dopo l’avanzata delle sinistre alle amministrative del 1975, scioglierà le Camere perché la Dc pensava, questa volta a ragione, di potere sfruttare la paura dell’inarrestabile avanzata comunista e di imbrigliare il Pci nella strategia della solidarietà nazionale (1976-1979). Leone subisce molto, in particolare, l’influenza di Andreotti. L’ombra dell’appoggio delle destre pesa molto sulla sua presidenza in un’Italia dal largo sentimento antifascista. Persino giornali ‘borghesi’ come il Giorno e il Corriere della Sera di Piero Ottone iniziano a prenderlo di mira spesso. Un’altra sua prima volta è il primo messaggio presidenziale inviato alle Camere: è opera di Leone e, spedito al Parlamento nell’ottobre 1975 (oggetto: i limiti del diritto di sciopero), dà luogo a un acceso dibattito sulla sua ‘natura’. Si tratta di un programma ‘governativo’, e dunque eccedente i poteri del capo dello Stato, o di rango ‘costituzionale’? Il Quirinale diventa soggetto di indirizzo politico, la risposta, seppure di rango costituzionale. Discussioni oggi oziose, specie dopo le presidenze Cossiga, Scalfaro e Napolitano…
Lo scandalo Lockheed (1976) e le dimissioni di Leone (1978).
Il presidente Leone e la sua famiglia vengono presto investiti da scandali di varia entità e natura che infine ne provocano le dimissioni. Quasi subito ginisce dentro il caso Lockheed, di cui viene additato addirittura come il possibile regista (in codice: ‘Antelope Kobbler’) al centro di un traffico di tangenti e armi con gli Usa. Anni dopo ne verrà totalmente scagionato, ma allora, nel 1976-’77, diventa oggetto di una campagna scandalistica condotta soprattutto dall’Espresso e da una delle sue firme di punta, quella di Camilla Cederna (che ne trasse un libro – Leone. Carriera di un presidente – finito in tribunale, con causa vinta dalla famiglia Leone). Sostenuta, politicamente, soprattutto dai radicali di Pannella e solo dopo anche dal Pci, a finire nel tritacarne mediatico è, piano piano, anche e soprattutto la vita ‘allegra’ della famiglia Leone. Voci e insinuazioni su donna Vittoria, ingombrante first lady, e pettegolezzi sui suoi tre figli e le loro chiacchierate amicizie, da Licio Gelli ai fratelli Lefebvre, dal finanziere Rovelli allo scià di Persia, si sprecano. Leone vorrebbe querelare la Cederna, ma il ministro della Giustizia del governo Andreotti, Bonifacio, nega più volte l’autorizzazione a procedere per oltraggio a Capo dello Stato. A coprirsi di ridicolo, in verità, Leone ci pensa da solo con le celebri esibizioni di corna davanti agli studenti che lo contestano all’Università di Pisa e davanti ai malati di colera negli ospedali di Napoli. Il discredito delle istituzioni tocca il suo acme, nel 1978, con il sequestro e l’omicidio di Moro che pure, nel 1975, davanti a un altro scandalo, quello Eni-Petronim, diceva “La Dc non si farà processare nelle piazze”.
Dopo l’ennesimo scandalo riguardante la sua famiglia, il 14 giugno 1978 Leone prova a replicare con una intervista, ma dopo Pr, Pri, sinistra Dc, è il Pci a chiederne con fermezza le dimissioni: arrivano il 15 giugno 1978, sei mesi e due settimane prima della scadenza naturale del mandato.
A scaricarlo per ultimo è la Dc che lo ha voluto presidente. Flaminio Piccoli gli dice, con tono solenne: “il partito ti chiede questo sacrificio”. Andreotti e Zaccagnini vanno a trovarlo al Quirinale il giorno delle dimissioni. Leone vuole ricordare ad Andreotti che fu proprio lui a convincerlo a non rispondere alle accuse, ma non lo fa. Poi congeda sarcastico e i due ‘amici’, ospiti ormai molto sgraditi: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.


NB. Questo articolo è’ stato pubblicato sul blog ‘I giardinetti di Montecitorio’ nella sezione blogger di Quotidiano.net