Elezioni presidenziali/7. Pertini o del ‘partito della fermezza’ (1978)

8 Gennaio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

Continuiamo la serie di ritratti del clima e delle trattative all’atto delle elezioni presidenziali della storia repubblicana più che dei presidenti stessi. Dopo De Nicola (1946), Einaudi (1948), Gronchi (1955), Segni (1962), Saragat (1964) e Leone (1971), tocca al socialista antifascista Sandro Pertini (1978). Sarà lui a far sentire, per la prima volta, il Quirinale come ‘la casa’ di tutti gli italiani

Il quadro politico. L’avanzata del Pci e la tenuta della Dc bloccano il sistema. Il compromesso storico (1973-1976)

L’Italia del 1978 sembra molto simile a quella del 1971 e invece è cambiato tutto. E non solo perché sono intercorse ben due elezioni politiche anticipate, quelle del 1972 e quelle del 1976. Nelle seconde, peraltro, giunte a ruota della straordinaria avanzata del Pci e delle sinistre alle elezioni amministrative del 1975, il tema è quello del ‘sorpasso’ del Pci sulla Dc, tema inimmaginabile solo fino a qualche anno prima. Il Pci ferma la sua potente avanzata al 34,4% (aveva preso il 27,2% nel 1972). Risultato clamoroso ma che non basta ad arrivare davanti al 38,7% della Dc che, in nome del baluardo anticomunista, asciuga i partiti di destra (Pli al minimo storico, 1,9%, Msi al 6,1%, dopo il boom del 1972: 8,7%) e si conferma primo partito (aveva il 38,8% nel 1972). Le sinistre, però, per la prima volta nella storia repubblicana superano, complessivamente, il potenziale del 50,1% dei voti: al 34,4% del Pci va sommato al 9,6% al Psi, fermo al palo, il 3,4% al Psdi, in caduta libera, l’1,5% del cartello delle sinistre radicali raccolte sotto la sigla Dp (era l’1,9%, ma come Pdup, nel 1972). Eppure, il segretario del Pci, che dal 1972 è Enrico Berlinguer, va predicando tutt’altra linea: non un fronte unico, democratico e alternativo, delle sinistre che porti alla sostituzione della Dc al governo ma un compromesso con essa in nome dell’antifascismo delle comuni origini e della comune struttura di partiti che rappresentano le ‘masse popolari’. E’ la teoria del ‘compromesso storico’ lanciata alla fine del 1973 con una serie di articoli comparsi sul settimanale Rinascita e scaturiti dall’enorme impressione dei fatti del Cile (golpe del generale Pinochet contro il governo, democraticamente eletto, delle sinistre presieduto da Salvador Allende) come di quelli di Grecia (golpe dei colonnelli militari contro la democrazia nel 1974). Del resto, l’Italia è attraversata da una profonda crisi economica e sociale (schock petrolifero del 1973, alta inflazione, alto debito pubblico, scioperi a catena) e dal pericolo degli ‘oppositi estremismi’ che non si presentano, però, come temeva la Dc, sotto forma di partiti politici, ma di organizzazioni armate. Lo stragismo neofascista (piazza Fontana, 1982, piazza della Loggia, 1974) e il nascente terrorismo delle Brigate rosse (sequestro Sossi, prime gambizzazioni e uccisioni) fanno temere per la tenuta dello Stato e per la garanzia delle stesse libertà democratiche. Infine, arriva il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro (marzo-maggio 1978). Lo Stato vive il suo momento più drammatico e pericoloso. I governi, che dopo la legislatura 1972-’76 (governi di centrosinistra), erano già i governi di ‘non sfiducia’ o delle astensioni verso monocolori Dc (astensione del Pci, ed è la prima volta, ma anche di tutti gli altri partiti laici) diventano governi di ‘solidarietà nazionale’.

 

 

Aldo Moro in carcere in mano alle Brigate rosse.

Aldo Moro in carcere in mano alle Brigate rosse.

Il partito della fermezza e quello della trattativa. Il caso Moro (1978)

Quando Leone si dimette “lo Stato – scrive con la consueta verve iperbolica Giampaolo Pansa – era un baraccone fradicio, corroso dai vermi della P e devastato dagli squadroni della morte del terrorismo e della mafia”. La questione che ancora dilania e fa discutere tutti i partiti politici è quella della ‘fermezza’ o della ‘trattativa’ con i terroristi (Br in questo caso). Per salvare Moro bisognava ‘trattare’, come chiedevano non solo amici e familiari, ma anche il Vaticano (Paolo VI), intellettuali di vario genere e partiti come il Psi (soprattutto), già guidato dal giovane Bettino Craxi, ma anche il Pr di Marco Pannella e la sinistra extraparlamentare (Dp), accusata di ‘fiancheggiare’ i terroristi? Oppure bisognava dimostrare la mano ferma dello Stato ed evitare ogni cedimento, come proponevano il Pci di Berlinguer, tutti i sindacati, la Dc tutta (tranne pochissimi dirigenti), il Pri di La Malfa e importanti giornali e aree culturali come quella che nasceva intorno a Repubblica? Peraltro, fino a poche ore prima del suo sequestro (16 marzo 1978) il Moro che si stava recando alle Camere per presentare il suo nuovo governo era anche uno dei candidati più accreditati al Colle. I comunisti lo volevano lì come garante del patto di governo, i diccì anche per toglierselo di mezzo. E invece, mentre Moro viene rapito, nasce il IV governo Andreotti: ottiene la fiducia anche dal Pci,in quel drammatico pomeriggio del 16 marzo. Poi gli eventi si succedono rapidi e drammatici: il ritrovamento del corpo di Moro, ucciso dalle Br (9 maggio), le dimissioni di Leone (15 giugno), favorevole a una trattativa con le Br ma che si dimette con sei mesi di anticipato sulla scadenza naturale (dicembre) a causa della campagne giornalistiche contro di lui e della pressione delle sinistre che ne invocano da mesi le dimissioni, il referendum sulla legge Reale e il finanziamento pubblico dei partiti promosso dai radicali (voto l’11-12 giugno). Ed ecco che istituzioni già scosse e in agonia si trovano alle prese anche con le votazioni per il nuovo Capo dello Stato. Montecitorio, per la prima volta, è circodanta da carabinieri in assetto di guerra che imbracciano mitra e pistole come un fortino assediato o una fortezza inespugnabile. La paura del terrorismo si respira ancora.

 

Sandro Pertini presidente della Repubblica (1978-1985)

Sandro Pertini presidente della Repubblica (1978-1985)

Si comincia. La Malfa ci spera, ma Craxi tesse la sua tela

Eppure, nota in quei giorni il giornalista liberale Enzo Bettiza, “la partitocrazia non s’è inceppata. C’erano due opzioni: far vincere un candidato socialista con i comunisti e contro la Dc oppure sorreggere Fanfani con la Dc e contro il Pci”. I candidati della Dc sono Andreotti, Gonella e Fanfani. Il Psi, in prima battuta, propone Giuliano Vassalli e Norberto Bobbio. Ma le previsioni sui candidati della vigilia si spengono subito. Il 29 giugno, quando vengono ‘spogliate’ le schede del I scrutinio, l’eterno candidato Fanfani non ottiene neppure un voto. I risultati dicono, invece, 392 voti per Guido Gonella (Dc, area destra), 339 per Giorgio Amendola (Pci), 88 per Nenni (Psi), 36 per il medico Luigi Condorelli (Msi), 20 per Parri (Pri), più un consistente gruzzolo di schede disperse (19), bianche (79) e nulle (19). Pertini si aggira in Transatlantico tirando gran colpi di pipa per dimostrare a tutti la sua vitalità mentre Ugo La Malfa, leader del piccolo Pri, crede che sia giunto il suo turno. Ma il problema è il Psi di Craxi: la nuova linea, autonomista rispetto al Pci, e liberale in economia, oltre che trattativista su Moro, è già stata premiata, in parte, dagli elettori e riscuote successo nell’opinione pubblica e sui giornali. Craxi vuole un socialista al Colle, solo che non ha ancora deciso quale e la sua antipatia per Pertini è nota. Ma non vuole cedere di un millimetro alla Dc e sa che, su un socialista, il Pci dovrà dire di sì. Come dirà in quei giorni: “Dopo Leone, la Dc deve passare la mano per i prossimi sette anni e noi poniamo la candidatura di un socialista al Quirinale”. I primi tre scrutini sono e restano di ‘riscaldamento’ e anche dal IV al XV scrutinio mentre Pci, Pli e Psdi continuano a votare i loro candidati di bandiera, i due partiti princiapli, Dc e Psi, si astengono o votano scheda bianca in attesa di un accordo da tessere dietro le quinte. accordo che, però, non matura.

Pertini finge disinteresse, ma non vede l’ora. Craxi finisce per subirlo

I test da superare, per testare i vari candidati sono due: la politica di solidarietà nazionale e la lotta al terrorismo. Partiti, leader e correnti si modulano su due assi: il primo è fautore di entrambe (Pri di La Malfa, Pci di Berlinguer, segreteria Dc in mano a Benigno Zaccagnini), il secondo asse le contesta entrambe pur tra molti distinguo (Psi di Craxi e Signorile, Pli e Dc di Forlani). La Malfa e Zaccagnini sono i candidati naturali del primo schieramento, quello della fermezza e dell’accordo con il Pci, il socialista riformista Antonio Giolitti e il socialista autonomista Francesco De Martino, già segretario del Psi, quelle del secondo (trattativa e fine dei governi di solidarietà nazionale). Ma le candidature La Malfa e Giolitti si elidono subito x i veti incrociati e rispettivi di Pri e Psi. La Malfa, in particolare, trova il veto irriducibile di Psi e Psdi per il suo avallo all’accordo Dc-Pci. Craxi, fermamente ostile a La Malfa, dice non anche a Zaccagnini, che fa poco per autocandidarsi. Una cosa è certa: Craxi vuole il Colle. Come dirà a Zaccagnini: “O un socialista sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti” (quell’unità nazionale nato sulle ceneri del caso Moro). Il leader socialista prova a far convergere Dc e Pci su una rosa di candidati tutti dal nome illustre e tutti socialisti: si va da Giuliano Vassalli a Antonio Giolitti fino a Sandro Pertini, ma la Dc mette il veto su Giolitti e il Pci su Vassalli. Resta Pertini, ma è il nome più sgradito a Craxi: caratteraccio, su posizioni ‘autonomiste’ e ‘frontiste’ (con il Pci), coltiva rapporti personali con tutta la sinistra, compresa quella parlamentare, incita i giudici (allora i ‘pretori d’assalto’) ad “andare avanti”. Inoltre, è l’unico socialista che ha condannato con durezza la linea della trattativa sul caso Moro. Craxi prima lo tiene nella rosa dei suoi nomi e poi lo candida ufficialmente il 2 luglio pensando di bruciarlo. Lo presenta, infatti, come il candidato “di tutta la sinistra”. Ma Pertini non ci sta: “Non voglio essere il candidato solo di tutte le sinistre, fa sapere ai grandi elettori dc, ancora furibondo con Craxi, ma “di tutto l’arco costituzionale che rappresenta l’unità nazionale”. Una frase geniale. Infine, pesa su di lui la questione anagrafacia (ha 82 anni) e allora ecco che si fa vedere in Transatlantico vestito di chiaro ed entusiasta: ha una parola, un rimbrotto o un complimento, per tutti.

“Per la prima volta nella storia va al Quirinale un socialista” s’inorgoglisce Craxi

Craxi conta sulle riserve della Dc, ma sarà proprio la Dc ad appropriarsi della candidatura Pertini. Le perplessità in casa democristiana restano alte, ma prima Andreotti e Piccoli, poi lo stesso Zaccagnini convincono i grandi elettori, che votano a scrutinio palese su Pertini, a superarle. D’altra parte, nel Pci, dove Berlinguer diffida di Craxi, si preferisce un socialista il più possibile lontano dal segretario. La scelta decisiva, alla fine, è quella della Dc: l’idea è di puntare su un socialista autonomo da Psi e Pci. Non bisogna dimenticare, infine, il consumato mestiere dello stesso Pertini, regista abile quanto ansioso della propria candidatura. Dalla sua bella casa di piazza Navona, osserva, scrive e parla con tutti i suoi vecchi amici: Natta, Amendola, La Malfa. Prepara persino le valigie per le vacanze a Nizza, con tanto di biglietto aeeo già comprato, dove si trova la moglie e dove sa che non andrà mai. E così, dopo altri nove scrutini passati dal giorno in cui Craxi ha lanciato ufficialmente la candidatura di Pertini (2 luglio), per poi ritornare sui a lui più graditi Vassalli e Giolitti (osteggiato da Dc e Pri), l’8 luglio 1978 Pertini viene eletto presidente della Repubblica da quasi  l’intero arco costituzionale (cui fa eccezione, ovviamente, l’Msi). Craxi rivendica così il suo capolavoro tattico: “Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Il discorso di Pertini è un abile frullato di antifascismo e culto della Resistenza, ricordo di Moro e fermo appello alla lotta al terrorismo, inni al ‘partito degli onesti’ e onore delle armi al discusso Leone.

Modalità di elezione di Pertini (8 luglio 1978, XVI scrutinio, 832 voti)

L’8 luglio 1978 Sandro Pertini viene eletto con 832 voti su 996 votanti, praticamente tutto l’arco costituzionale. E’ la percentuale piu’ alta mai raggiunta prima da un presidente della Repubblica. I Grandi elettori erano 1010, il quorum era fissato a 506 voti, la percentuale di elezione dice 82,3%. Il mandato di Pertini inizia il 29 luglio 1978 e termina con le sue dimissioni il 29 giugno 1985.

Pertini in montagna nella classica posa con pipa in mano.

Pertini in montagna nella classica posa con pipa in mano.

Il ‘presidente degli italiani’: la pipa, i Mondiali, le ire e le esternazioni

“Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perché cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”. Queste la profetiche parole del neoeletto presidente. Pertini sale al Colle 81 anni e sembra solo un simpatico vegliardo già carico di onori che durerà poco. La sua carriera, invece, è appena cominciata. “Sono sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti” dirà già pochi mesi dopo: ha sicuramente ragione.
Alessandro detto ‘Sandro’ Pertini (Stella, Savona, 1896 – Roma, 1990), di umili origini, educato dai salesiani, combattente eroico nella Grande Guerra, socialista e antifascista da giovanissimo, esule in Francia con Turati, arrestato nel 1929 e in carcere con Gramsci, liberato nel 1943, capo della Resistenza nel senso tecnico del termine (era a capo del Cnlai, il comando politico dei partigiani), Pertini era considerato, in pratica già dagli anni ’50, un monumento della Resistenza, una ‘vecchia gloria’, oltre che un politico ‘frontista’, propugnatore dell’unità organica tra Psi e Pci (paradosso: nel 1948 è tenacemente contrario al Fronte popolare con il Pci, voluto da Nenni, che perderà le elezioni), buono solo per ricoprire cariche istituzionali, come la presidenza della Camera, che presiede dal 1968 al 1976. La presidenza Pertini, invece, sarà un vero terremoto: riavvicinerà i cittadini al Quirinale, dopo anni di scandali e di gaffes, le ‘esternazioni’ di Pertini saranno continue e su tutto, avrà conseguenze anche sul quadro politico con la nomina dei primi due governi non a guida dc della storia repubblicana (Spadolini, Pri, nel 1981 e Craxi, Psi, nel 1983), sarà semplice e popolare.
Sempre in compagnia della moglie, Carla Voltolina, se possibile più semplice e più schietta di lui, senza figli, Pertini è rimasto una stella fissa nell’immaginario popolare: l’immancabile pipa (che, peraltro, fumava pochissimo), gli studenti che vanno a trovarlo al Quirinale e lo circondano di affetto e risate, i suoi discorsi e anche le sue gaffes, i suoi scoppi d’ira. I segni della vittoria al Barnabeu, alla finale dei Mondiali contro la Germania, la partita a scopa con Zoff, Causio e Bearzot sull’aereo che riporta i campioni (1982), ma anche le sue durissime parole sui soccorsi latitanti nel terremoto dell’Irpinia (1981), contribuiscono a fare di ‘nonno Sandro’ e del Quirinale, per sette anni, una ‘casa aperta’ e ‘di vetro’ per gli italiani. Aiutato dai media e da diversi giornalisti e intellettuali che lo beatificano oltre i suoi meriti e ne fanno un ‘santino’, lacrime comprese, come quelle per Enrico Berlinguer, di cui riporta a Roma la salma “come un fratello”.
Egocentrico, collerico, fin troppo estroverso, confusionario e pasticcione sui più delicati dossier, i suoi messaggi di Capodanno agli italiani diventano proverbiali per le scudisciate che tira a tutti, partiti in testa, come quello di fine 1981, quando parla della scoperchiata loggia massonica P2. Difensore strenuo delle libertà parlamentari, soggiace anche lui alle leggi della politica: subisce il primo scioglimento anticipato delle Camere della sua presidenza nel 1979, lo ripete nel 1982. Amato dai giornali, vessa giornalisti e addetti stampa: epico e burrascoso il licenziamento del suo portavoce, Antonio Ghirelli, nel 1980 o le sue sfuriate con i collaboratori che se ne devono sempre addossare le colpe e le plateali gaffes: “Parlo con chi voglio, di cosa voglia, quante volte voglio!”.
Pochi ricordano che Pertini non attese la fine del suo mandato e l’elezione del suo successore, ma si dimise di suo pugno, con breve anticipo, il 29 giugno 1985. Anche lui voleva essere rieletto.


NB. Questo articolo è stato pubblicato sul blog ‘I giardinetti di Montecitorio’ nella sezione blogger del Quotidiano nazionale