Elezioni presidenziali/13. Ovvero il trionfo dei ‘franchi tiratori’. Storie di tradimenti, pugnali e veleni

23 Gennaio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

Moro: “Leone non deve passare”. Donat-Cattin: “Cosa possiamo fare?”. Moro: “Io faccio il presidente del Consiglio, ma vi sono dei mezzi tecnici”. Donat-Cattin: “Io ne conosco solo tre, di mezzi tecnici: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”

 

Etimologia di una parola e descrizione di un fenomeno

Conviene partire dall’etimologia della parola. Franco tiratore viene dal francese franc-tireur e sta a indicare i piccoli gruppi di combattenti francesi che colpivano con azioni di disturbo l’esercito prussiano nella guerra franco-prussiana del 1870-’71. Da quel fatto storico assume il significato di “guerrigliero che opera, per lo più isolato o in piccoli gruppi, contro forze regolari, soprattutto nei centri abitati che il nemico cerca di occupare o sta evacuando” (Vocabolario della lingua italiana Treccani). Ma, partire dagli anni Cinquanta del Novecento, nel linguaggio politico e giornalistico italiano la parola assume un senso ‘figurato’. Franco tiratore diventa il “rappresentante di un partito o uno schieramento che, in votazioni segrete di organi collegiali, vota in modo diverso da quello concordato o ufficialmente deciso dal proprio partito o schieramento” (Vocabolario Treccani). Come notava Gino Pallotta, nel suo Dizionario politico e parlamentare, “nel franco tiratore parlamentare c’è, riflessa, l’immagine del “cecchino”: che, nascosto, tira all’improvviso”. Da eroe a traditore.
Indro Montanelli sosteneva che il primo, vero, obiettivo di un’elezione al Quirinale non è quello di eleggere un Presidente, ma di individuare l’avversario di turno ed eliminarlo il prima possibile dalla corsa al Colle. All’uopo, ecco che arrivano i ‘franchi tiratori’, vecchi quanto la Repubblica. Sebastiano Messina, che ne ha scritto su Repubblica, li descrive come “la cavalleria invisibile che disarciona con un solo colpo chi osa avventurarsi nella salita del Quirinale senza essersi assicurato la fedeltà delle truppe. E mentre il quasi-presidente, colpito e affondato, riflette sul destino cinico e baro, loro scompaiono senza lasciare traccia”.Il diccì di lungo corso, Angelo Sanza, li distingue in due precise casistiche: “c’è il franco tiratore pragamatista, che ha una motivazione culturale o amicale e cambia posizione a seconda del candidato; e c’è il franco tiratore fondamentalista che punta solo a ostacolare il nome forte già concordato. Con i primi si può trattare, con i secondi no”. Giulio Andreotti ne ha fatto quasi un assioma: “Il candidato ufficiale non viene eletto mai o quasi mai perché nel voto segreto c’è la reazione dei dei peones contro le segreterie di partito e le intese di vertici. Ci sono state eccezioni, ma restano tali”.

L’esordio dei franchi tiratori. Le elezioni presidenziali del 1948

La data di esordio dei ‘franchi tiratori’ risale al lunedì 10 maggio 1948. A partire dalle ore nove, i Grandi elettori del primo Parlamento repubblicano sono chiamati ad eleggere il primo Presidente ‘vero’ della Repubblica italiana, dopo l’interregno di De Nicola, capo provvisorio dello Stato. L’allora premier e leader della Dc De Gasperi candida ufficialmente il suo ministro degli Esteri, il conte Carlo Sforza. Dc e alleati godono di una maggioranza schiacciante. Sforza dovrebbe farcela senza alcun problema. Invece, l’esito dello scrutinio è bruciante: solo 353 voti per lui contro i 396 ottenuti dallo stesso De Nicola, votato ‘per dispetto’ dalle sinistre e altri. Su 833 votanti, a Sforza mancano 98 voti in meno anche rispetto a quelli che servirebbero quando, dal IV scrutinio, si vota a maggioranza semplice. A tradire De Gasperi è stata la sinistra dc, antiatlantica e pure bigotta: Sforza è un laico mangiapreti e dongiovanni troppo filo-americano. Nelle votazioni seguenti il nome di Sforza continua a calare e De Gasperi dovrà presto venire a patto con i ‘professorini’ della sinistra (La Pira, Dossetti, Fanfani) eliminando la candidatura Sforza e promuovendo Einaudi, che al IV scrutinio sarà presidente (518 voti). Andreotti, incaricato da De Gasperi di recare a Sforza la ferale notizia, sbircia sul suo tavolo il discorso del giuramento già pronto e che il conte dovrà rinfilarsi rassegnato in tasca.

Elezioni del 1955. I franchi tiratori ci prendono gusto

Trascorrono sette anni. I ‘franchi tiratori’ ci hanno preso gusto. E’ la mattina del 28 aprile 1955 quando il Parlamento si riunisce in seduta comune per eleggere il successore di Einaudi. Stavolta a dare le carte è il nuovo segretario della Dc, Amintore Fanfani, e il presidente del Consiglio, Mario Scelba: puntano sul presidente del Senato, Cesare Merzagora, indipendente eletto nelle fila della Dc. Solo che prende appena 228 voti benché i diccì presenti e votanti siano 380. mancano all’appello 160 voti. I ribelli dell’opposizione interna, la ‘solita’ sinistra dc, ormai capeggiata dal presidente della Camera, Giovanni Gronchi, impallinano Merzagora, ma con il cospicuo apporto anche della destra interna che ha un nuovo nome (‘Concentrazione’) e che vede tra i suoi leader Andreotti, Tognoni, Pella. Negli scrutini successivi, il nome di Merzagora continua a calare finché non viene superato proprio da quello di Gronchi, che finirà per trionfare al IV scrutinio con 658 voti, presi anche a sinistra. Merzagora si ferma a 246. “Mi sono fatto giocare come un bambino a moscacieca”, commenta amaro.

Elezioni del 1962. Le ‘perquisizioni’ corporali dei Dorotei…

Quando, il 2 maggio 1962, si aprono le urne per eleggere il terzo presidente della Repubblica, ci capisce subito che si andrà per le lunghe. Questa volta è Fanfani che vuole prendersi la sua rivincita: costringerà Aldo Moro, nuovo segretario della Dc, a sudare sette camice per imporre il suo candidato, Antonio Segni. Moro lo presenta e lo fa votare dai Grandi elettori della Dc il 28 aprile. Sono le prime ‘primarie’ della storia italiana. Alla fine, le schede vengono bruciate, come in un ‘vero’ conclave. Ma la candidatura Segni, per quanto sostenuta a spada tratta dai Dorotei, ha contro fanfaniani e sinistra dc. Al I scrutinio Segni ottiene solo 333 voti, quando ne servono 438, mentre Piccioni (esponente di ‘Concentrazione’) ben 123, Gronchi venti. Destra e sinistra interna, più i fanfaniani, giocano contro Moro, stavolta. Gli scrutini successivi sono un caos e Montecitorio si trasforma in un suk. Solo al VI e VII scrutinio Segni sale a 396 voti, tallonato dal candidato delle sinistre, Saragat. I Dorotei, per stanare i franchi tiratori, s’inventano un complesso stratagemma: il ‘grande elettore’ dc deve entrare in aula, ritirare la scheda dai commessi, uscire e rientrare dalla seconda porta dell’emiciclo per ritirare una seconda scheda. La prima viene compilata con il nome del candidato ‘ufficiale’, la seconda con quella del candidato ‘di disturbo’, poi entrambe vengono consegnate agli elettori che se le infilano nelle giacche. Ai malcapitati non resta, una volta giunti davanti all’urna, che ricordarsi di estrarre la scheda dalla tasca giusta e votare il nome giusto perché, all’uscita dall’aula, verranno sottoposti a un’amichevole ‘perquisizione’ da parte dei colleghi di partito incaricati di fare da ‘controllori’ e che devono, per avere garanzia del voto, ritrovare la scheda del candidato ‘di disturbo’. Alla fine, Segni ce la farà e verrà eletto, al IX scrutinio, con 443 voti. I franchi tiratori sono stati sconfitti pure con l’intervento pro-Segni della cd. ‘brigata Sassari’ (Cossiga, Piccoli, Sarti).

Elezioni del 1964. Il “supplizio cinese” di Leone e la (citata sopra) frase di Moro

Le urne si aprono il 16 dicembre 1964. Segni si è dimesso per malattia, tocca votare il suo successore. Fanfani guida, come al solito, la fronda contro Moro, ma questa volta il nuovo presidente del Consiglio della Dc non punta su un suo uomo, ma su un socialdemocratico fidato, Saragat, però sa che i Grandi elettori della Dc lo digerirebbero a fatica, da subito. Fanfani appoggia la candidatura Leone, ma per bruciarlo e proporsi lui, dorotei, centristi e destra interna, invece, puntano davvero su Leone. Moro convoca il leader della corrente ‘Forze Nuove’, Carlo Donat Cattin, nel suo ufficio e gli dice secco: “Leone non deve passare”. “D’accordo”, risponde l’altro, “ma come facciamo?”. “Io sono presidente del consiglio, quanto a voi esistono dei mezzi tecnici”. “Conosco solo tre mezzi tecnici” spiegha poi Donat Cattin ai suoi: “Il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”. Al primo scrutinio Leone ottiene 319 voti, ben 123 sono i voti dispersi, 18 vanno a Fanfani, solo che Leone ne avrebbe dovuti avere almeno 400. Il “supplizio cinese” della candidatura Leone, come lo chiamerà lui stesso, va avanti a lungo. Negli scrutini seguenti, Leone scende ancora (a 304, poi a 290 voti, etc.), Fanfani sale, ma nessuno dei due ha i voti risolutivi. Il Paese rumoreggia, ed è la prima volta, contro lo ‘spettacolo indegno’ in scena. Leone annuncia il ritiro della sua candidatura solo al XVI scrutinio, la notte di Natale, davanti a una marea di schede bianche (368) che lui commenta così: “Era come se un burattinaio invisibile organizzasse la ballata delle schede bianche per disorientare il Parlamento”. La riunione dei Grandi elettori dc si svolge la notte stessa: il segretario Rumor alza bandiera bianca e comunica agli alleati di avanzare loro un nome. Sarà quello di Saragat, che viene eletto al XXI scrutinio con 464 voti, il 28 dicembre 1964, con i voti congiunti delle sinistre e, anche, delle destre. Due capicorrente ribelli, De Mita e Donat Cattin che, ricorda Leone, “si facevano pubblico vanto di non avermi votato”, verranno sospesi dalla Dc per “atti di rilevante indisciplina politica”. Magra consolazione per Leone.

Elezioni del 1971. Il ‘Rieccolo’ Fanfani svanisce, impallinato dai cecchini

Anche se non c’è stato un leader o un semplice capo corrente dc che non abbia usato i franchi tiratori, da Dossetti ad Andreotti, da Andreotti a De Mita a Forlani, è Fanfani il grande stratega dei cecchinaggi altrui. Finirà impallinato a sua volta, come peraltro era già avvenuto in passato. Nel 1971 Fanfani è convinto che sia il suo turno. Giulio Andreotti, che dichiarerà “non siamo mai stati grandi amici”, lo va a trovare insieme a Forlani: “Stavolta – gli dice – i voti del nostro gruppo ci saranno tutti anche perché non ci sei tu a organizzare i franchi tiratori, ma socialisti e comunisti non ti voteranno mai”. Fanfani ribatte: “Ti pensa ai nostri, al resto penso io”. Si dice che, per rendere riconoscibili i voti, i fanfaniani chiedono ad alcuni di scrivere ‘Fanfani’ in rosso, ad altri in verde, ad alcuni con la penna stilografica, ad altri con la matita o, ad altri scaglioni, di aggiungere nome, cognome o titoli (‘presidente’, professore’, senatore’). Ma le cose si mettono male subito. Al I scrutinio, il 9 dicembre 1971, Fanfani prende 384 voti contro i 397 del candidato delle sinistre, De Martino. A Fanfani mancano 36 voti già al primo scrutinio (saranno solo 16 al secondo), ma sono sufficienti a fargli capire quello che un grande elettore scrive nel segreto dell’urna di vimini: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Giorgio La Malfa, leader del Pri, tuona nei corridoi di Montecitorio: “romperò i garretti ai cavalli di razza della Dc”. Il primo è Fanfani, il secondo è Moro, candidato nell’ombra delle trattative segrete e che le sinistre, Pci in testa, vedrebbero bene al Colle, pronti a dargli i voti come avevano fatto con Gronchi e Saragat. La Dc sospende il voto per Fanfani dal VI scrutinio e passa alla scheda bianca, ma lui insiste e chiede una verifica sul suo nome: all’XI scrutinio prende 393 voti, ma il target minimo da raggiungere per coltivare ancora speranze è quota 400. a tradirlo sono, tra gli altri, i morotei, Forze Nuove e la destra di Andreotti. A quel punto, Fanfani cede e si ritira. Dopo molte altre votazioni a vuoto, passerà Giovanni Leone al XXIII scrutinio (518 voti), il 28 dicembre 1971, la più lunga e drammatica elezione presidenziale della storia repubblicana.

Elezioni del 1978 e 1985. I ‘franchi tiratori’ si prendono due lunghe pause

Nonostante Sandro Pertini sia stato eletto solo al XVI scrutinio (832 voti) l’8 luglio 1978, le elezioni presidenziali che seguono le dimissioni Leone, non sono stati teatro di ‘operazioni di guerra’ dei franchi tiratori. Infatti, la lunghezza estenuante delle votazioni che, dal 29 giugno, giorno del I scrutinio (392 voti per Guido Gonella, candidato della Dc, 339 per Giorgio Amendola del Pci e 88 per Pietro Nenni del Psi) arrivano fino all’8 luglio servono, più che altro, per trovare e calibrare un candidato vero del Psi che abbia anche il via libera della Dc e del Pci, stante che il patto non scritto è che l’inquilino del Colle debba essere un socialista. Quell’uomo, alla fine e dopo molti dubbi, il segretario del Psi Bettino Craxi lo identifica in Pertini. L’elezione di Francesco Cossiga, avvenuta al I scrutinio il 24 giugno 1985 (752 voti) è una prima volta assoluta: una massa di voti di tutti i partiti sul candidato prescelto al I scrutinio e senza apparizione di ‘franchi tiratori’. Si chiama, appunto, da allora, ‘metodo Cossiga’ e verrà bissato dal ‘metodo Ciampi’. La seconda elezione di Napolitano è tutta un’altra storia e, anzi, è figlia proprio del trionfo dei ‘franchi tiratori’ alle elezioni 2013.

Elezioni del 1992. Forlani e Andreotti si fanno fuori a vicenda. Trionfo di complotti

Per rivedere in azione i ‘franchi tiratori’ bisogna attendere il 1992. Le ambizioni dei due leader più ‘quirinabili’, dentro la Dc, sono note a tutti: il segretario del partito, Arnaldo Forlani, e il premier, Giulio Andreotti. Gava e Casini rastrellano voti per il primo, Pomicino ed Evangelisti per l’altro. Il 13 maggio il Parlamento si riunisce in seduta comune e il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, fiutata l’aria di imboscate e grida al golpe e contro i ‘corrotti’, fa montare dei ‘catafalchi’ (cabine di legno foderate con un drappo rosso, così ribattezzati da Rutelli, si usano ancora oggi) sotto il banco della presidenza per garantire al meglio la segretezza del voto. I primi tre scrutini sono di riscaldamento, il gioco si fa duro solo dal quarto. Dopo giorni surreali di ennesimo ballottaggio ‘informale’ tra Andreotti e Forlani come nella scena immortalata nel film “Il Divo” di Sorrentino (“Giulio e Arnaldo, uno di voi due deve essere il prossimo presidente”, dice a entrambi Pomicino Forlani, gelido: ‘Se Giulio è candidato, io non lo sono’. Andreotti, in un sussurro: ‘Se Arnaldo è candidato, io non lo sono”), il candidato ufficiale della Dc diventa Forlani. La mattina del 16 maggio 1992 ognuno dei parlamentari dc sospettati di cecchinaggio riceve precise istruzioni: il voto deve essere riconoscibile. Vengono utilizzate le infinite combinazioni ottenibili scrivendo con penna blu, verde, nera o rossa tutte le formule ammesse. Ovvero: “Arnaldo Forlani”, “Forlani”, “on. Arnaldo Forlani”, “on. Forlani”, “Forlani Arnaldo”, “Forlani on. Arnaldo”, “on. Forlani Arnaldo”, “Arnaldo on. Forlani”. Eppure, non basta. Al V scrutinio (la maggioranza assoluta era fissata a 508 voti) Forlani ne prende 469- Gliene mancano solo 39, ma bastano a impallinarlo. Sono andreottiani, mastelliani, pattisti filo-Segni, qualche laico. Sono i ‘101’ dell’anno 1992. Anche al VI scrutinio va male: Forlani arriva a 479 voti, ne mancano 29, ma la verità è che la sua candidatura è in caduta libera. La maggioranza di governo (il pentapartito di allora) ha, sulla carta, ben 546 voti e vuol dire meno 80 per Forlani, tradito da andreottiani, pattisti, demitiani, socialisti. Infatti, anche i socialisti avevano imparato l’arte dai democristiani: “Almeno un terzo del gruppo negò il suo appoggio al leader della Dc, con Craxi aveva stretto un patto di ferro, da Martelli a Formica, con l’obiettivo di colpire Forlani per ferire Bettino”, ricorderà poi Gennaro Acquaviva. Anche il segretario del Pds, Achille Occhetto, si siede sulla riva del fiume per colpire al cuore l’odiato CAF e, in particolare, Craxi e Forlani. Il 17 maggio Forlani annuncia il ritiro della sua candidatura, più tardi si dimetterà anche da segretario. Dovrebbe essere l’ora di Andreotti, ma la sua candidatura, che pure circola forte, non diventerà mai quella ufficiale. L’azione dei suoi è stata determinante solo per silurare Forlani. Dal VII scrutinio, la Dc inizia a votare scheda bianca, le candidature sue come degli altri partiti si consumano e si bruciano anche in un giorno solo. E, quando il pentapartito sostituisce Forlani col socialista Giuliano Vassalli, i dc dorotei assaporano il dolce sapore della vendetta stabilendo il record storico dei franchi tiratori: meno 180 i voti per Vassalli al XIV scrutinio. I capigruppo socialisti diramarono una nota dolce-amara: “Siamo particolarmente grati alla Dc per aver sostenuto con esemplare lealtà e coerenza la candidatura Vassalli assicurandogli al metà dei suoi voti”… Il giorno dopo, 23 maggio, arriva la notizia della strage di Capaci. Solo a quel punto, l’elezione di Scalfaro, al XVI scrutinio, diventa una formalità. Scalfaro prende 672 voti, m a comunque si contano ben 324 voti dispersi.

Elezioni del 1999 e del 2006. Ciampi e Napolitano passano indenni

Le elezioni di Ciampi, eletto al I scrutino con il metodo delle larghe intese il 13 maggio 1999 e quella di Napolitano del 10 maggio 2006 (543 voti) non vedono i ‘franchi tiratori’ all’opera, però si registra un fatto curioso, all’atto dell’elezione di Napolitano. La Casa delle Libertà, che alla fine, caduta la candidatura D’Alema, aveva optato per la scheda bianca, non si fidava dei suoi grandi elettori, Berlusconi su tutti. Ecco perché ordina ai suoi di passare il più veloce possibile dentro il catafalco per indicare che, effettivamente, abbiano votato scheda bianca. Lo faranno in 347, coerenti, ma come ricorderà divertito il premier Romano Prodi “a passo di carica. Correvano come bersaglieri”. In questo caso, trattasi di franchi tiratori al contrario.

Elezioni del 2013. L’apogeo dei ‘franchi tiratori’. La carica dei ‘101’

 

Chi erano quei i 101 franchi tiratori che due anni fa, la sera di venerdì 19 aprile, impedirono a Romano Prodi di diventare capo dello Stato? E come si chiamavano i 224 franchi tiratori che il giorno prima avevano sbarrato a Franco Marini la strada che porta al Quirinale? I sospetti abbondano, le certezze mancano. Sul campo resta solo qualche indizio, del tutto inutile per evitare un’altra imboscata. Il ricordo di quell’aprile brucia ancora, soprattutto nella memoria dei protagonisti e nel dibattito politico, ma per non appesantire il racconto, il tema verrà trattato nel pezzo che riguarda il II mandato di Napolitano, rieletto presidente il 20 aprile 2013 con 738 voti.