Partiti senza popolo (Sc), leader senza partiti (Salvini) e nuovi partiti dotati di leader ma personali (Renzi)

9 Febbraio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

Meglio avere partiti senza popolo o leader senza partiti? La domanda, lo so, rischia di apparire oziosa. Anche perché la risposta più facile (e auto-assolutoria) sarebbe: ‘meglio avere partiti con popolo e leader democratici’. Il guaio è che non è ciò che sta accadendo. La mia riflessione parte dal fatto che, per ragioni di lavoro, ho seguito domenica scorsa la giornata congressuale di un partitino ormai liquefattosi e inesistente, Scelta civica. Nuovo segretario è diventato l’attuale sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti. Entusiasta, anche arrabbiato, ambizioso, Zanetti – fino a ieri – era un Carneade qualunque della politica. Oggi, invece, è ‘un leader’. Ne siamo sicuri? Scelta civica, dopo aver perso il gruppo al Senato (sette su sette i senatori che se ne sono andati) e in via di liquefazione quello alla Camera (sono rimasti in 23, ma scenderanno ancora), vuole però, nonostante tutto, continuare ad esistere. Il problema è ‘come’. Sono circa 3600 gli iscritti, ma le malelingue dicono che il tesseramento sia stato gonfiati, e appena 214 i delegati che, domenica scorso, hanno eletto, ‘a furor di popolo’, Zanetti segretario. Un’assemblea di condominio allargata per non dire delle rilevazioni dei sondaggi che quotano il partito sotto l’1% (0,7% l’ultimo dato vero, quello preso alle Europee). Di ‘cosa’, dunque, è diventato leader, Zanetti? Del nulla, in verità. Può, dunque, ragionevolmente, un partito siffatto esprimere un leader, vero o presunto che sia? No, perché gli manca ‘un popolo’. In meno di due anni, la lista elettorale prima e il partito di Monti poi ha dilapidato tutto il suo consenso e, appunto, non esiste più.Ergo, gruppo parlamentare o meno in dissoluzione, Zanetti è diventato un leader di un partito che non esiste, senza storia e senza popolo.
Dall’altra parte, abbiamo molti leader senza partiti veri alle spalle. Prendiamo, per dire, Matteo Salvini. La Lega Nord ha messo in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti, chiuso il suo giornale (La Padania), quasi sicuramente venderà anche la storica sede di via Bellerio. Era un partito radicato – forse l’ultimo, nato in Italia – con tanto di feste, sezioni, organi statutari, congressi, iscritti. Ma era un partito politicamente ‘in agonia’. Morto, insomma, o quasi, dopo la malattia del leader fondatore, Umberto Bossi, e la pallida successione impersonificata da Roberto Maroni. E’ arrivato Salvini ed ecco che, invece, tutti i guai della Lega paiono superati. Salvini, onnipresente in tv, dai talk show politici a quelli popolari, ha rivitalizzato la Lega, schizzata in alto in tutti i sondaggi di opinione, l’ha dotata di nuovi rapporti e agganci internazionali (Marie Le Pen) e l’ha rimessa al centro della scena politica. Oggi, se esiste un contraltare politico a Renzi, al suo governo e al suo Pd è lui, Salvini. Persino Berlusconi, ‘impedito’ e alle prese con una FI spaccata in mille pezzi, è andato a Canossa: deve riceverlo, blandirlo, promettergli che il nuovo centrodestra nascerà sull’asse FI-Lega. Salvini ha, decisamente, un ‘popolo’ dietro di sé, che la pensa come lui (tralasciando che solletica gli istinti e gli umori peggiori della Nazione, dalla xenofobia al razzismo all’odio etnico) e che è pronto a ‘seguirlo’. Salvini è, indubbiamente, un leader, ci sa fare, ed ha un popolo, ma non ha (più) un partito. La Lega Nord non esiste più o si è ridotta a correnti ed enclave regionali (la Liga Veneta di Tosi), a tal punto che- raccontava il Corsera giorni fa – Salvini non ha neppure a disposizione quel pugno di militanti necessari per tradurre nel concreto le proposte politiche che lancia (manifestazioni di piazza, referendum sulla Fornero o sull’Euro).
Il modello virtuoso, se ne deduce, dovrebbe essere quello del Pd. C’è un leader forte, che è anche capo del governo (non capitava, in un partito politico italiano, dai tempi di Craxi), c’è un partito che, in teoria, è ancora strutturato e radicato sul territorio nazionale, c’è – si continua a dire – una classe dirigente, sia ‘vecchia’ (gli sconfitti da Renzi D’Alema, Bersani, Veltroni, Fassino, etc) che ‘nuova’ (i renziani) ancora in funzione. “Fin qui”, direbbe il protagonista del film L’haine, vedendosi cadere da un grattacielo, piano dopo piano, “tutto bene”. Affatto. La leadership di Renzi, infatti, è talmente forte e spiazzante da aver appiattito il dibattito interno al Pd su un’unica direttrice: renziani/antirenziani (come nel Psi di Craxi: craxiani/anticraxiani). Inoltre, le mitiche ‘sezioni’ o, come si dice oggi, modernamente, nel Pd) ‘circoli’, non esistono più né producono dibattito politico. Persino le primarie (vedi il caso Liguria) sono finite in soffitta: meglio non farle, inquinano il voto e sono a rischio infiltrazioni. Del resto, aver trasferito – errore di molto precedente alla gestione Renzi – tutto il peso della lotta politica interna dalle sezioni/circoli alle cd. primarie ‘aperte’ (votano gli ‘elettori’, non meglio definiti) ha finito per svilire il ruolo del partito e della sua classe dirigente. Veltroni contro resto del mondo vinse fuori e non dentro il Pd, Renzi contro Bersani pure, solo Bersani (prima contro Franceschini, poi contro Renzi, la prima volta) valorizzò il ruolo e il peso degli iscritti, ma non diede mai più seguito a tale opzione. Nonostante ciò, non si può dire che Renzi, premier ‘non eletto’, sì, ma costantemente ‘alto’ in tutti i sondaggi popolari di gradimento, non abbia un ‘popolo’ dietro di sé e un partito, sia pur ammaccato e a mezzo servizio, che lo sorregge e spalleggia in tutte le scelte.
Siamo dunque, visto che nulla s’inventa e nulla si distrugge, in politica, alla teoria nata ad hoc per definire il partito di Berlusconi, Forza Italia, dal politologo Mauro Calise in un celebre saggio, il “partito personale”? E cioè quel “partito carismatico e personale, a basi di massa, dove – a differenza delle altre democrazie occidentali – il partito non agisce come una macchina che serve a selezionare e sostenere il leader, ma è il leader a fornirgli regole e valori, identità e personalizzazione” che, sempre per citare Calise, diventa “personalizzazione iperbolica, enfatizzata dall’uso dei media, del partito e del governo, dipendenti dal ‘corpo’ del Capo”. Sì, in effetti. Con un’appendice che Calise non poteva prevedere. Infatti, il politologo, pur scrivendo solo pochi anni fa (2011), definiva il Pd “un partito incompiuto e impersonale. Privo di un’organizzazione solida, leggera o pesante, di una leadership condivisa (semmai ‘divisa’) e partito indefinito nella prospettiva”.
Oggi, invece, è Renzi a ‘realizzare’ il sogno del ‘partito personale’ cui ha lavorato per vent’anni, fallendo, Berlusconi nel centrodestra e non c’è alcuna considerazione ‘moralistica’ in tale affermazione. Occorre solo registrarne il dato di fatto. Anche perché, e qui forse stupirò qualcuno dei miei 25 lettori, tra partiti ‘senza popolo’ e leader senza partiti, preferisco di gran lunga che si mettano alla prova leader come Renzi con al seguito sia un popolo ‘vero’ che un partito ‘vero’, nella speranza che, in futuro, magari passino i leader ma restino i partiti. Oltre che, ovviamente, il loro popolo. Che poi questa trasformazione del Pd di Renzi in partito ‘personale’ del premier si traduca davvero, sic et simpliciter, in un surplus di lievito democratico per il sistema dei partiti, la democrazia italiana e il partito stesso in questione (il Pd) è tutt’altra storia. Tutta ancora da leggere, conoscere, studiare.