Tripoli bel suol d’amore. Quando Giolitti guido’ l’imperialismo straccione italiano in una guerra inutile, quella di Libia (1911-’12)

18 Febbraio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

“Tripoli bel suol d’amore”, si cantava nei cafe’ chantant e tra gli intellettuali nazionalisti italiani nel 1911, alla vigilia della prima guerra di Libia

 

tripoli bel suol damore

Oggi si parla di nuovo di intervento italiano in Libia, sia pure sotto egida Onu e comando Nato. A piu’ riprese smentito, potrebbe dunque prima o poi arrivare il momento del ritorno di un contingente militare italiano in terra di Libia. Vediamo come e cosa accade con il primo, nel 1911-1912 cercando di capire il perche’ di una guerra che presto si capi’ fu inutile e dannosa.
“… Non arrivo ad intendere con che cuore/ noi che per secoli patimmo e lamentammo il giogo,/ andiamo ora ad imporlo” (Ferdinando Martini, uomo politico italiano, alla vigilia della guerra in Libia)
Nel primo cinquantesimo anniversario dell’Unità, dopo la lunga battuta d’arresto dell’imperialismo straccione (desfinizione che Lenin dara’ del colonialismo italiano) che ha fatto seguito alla disfatta di Adua (Etiopia, 1896), l’Italia guidata dal presidente del consiglio liberale Giovanni Giolitti riprende l’avventura coloniale ed entra in guerra contro l’Impero ottomano, che controllava Tripolitania e Cirenaica. È la guerra italo-turca o guerra di Libia, anche se, nel 1911, la Libia non esisteva ancora nelle carte geografiche. Una guerra di certo disastrosa per il popolo libico (100 mila morti nell’arco di vent’anni: 1911-1931) a causa delle vere e proprie efferatezze dell’occupazione militare italiane (genocidi e crimini di guerra proseguirono e si ampliarono durante i vent’anni di occupazione fascista) e del tutto inutile per il popolo italiano cui causo’, a seconda delle stime, da 5 Mila a 50 mila morti senza portare alcun benificio concreto e stabile.
Le motivazioni ufficiali e quelle reali. La motivazione ‘ufficiale’, propagandata dalla retorica nazionalista, stava nella volontà di ‘vendicare’ il massacro di Adua (1896) e di ridare all’Italia quel prestigio internazionale che la sconfitta in Etiopia aveva fatto perdere. Un’altra causa, tutta di politica interna, fu la volontà di Giolitti di allargare il quadro politico italiano alle nuove forze politiche della destra che allora erano assai favorevoli alla conquista coloniale. Non indifferenti, nella scelta di Giolitti, furono i maneggi del Banco di Roma che il governo italiano aveva spinto in Libia come “cavallo di Troia” per una prossima conquista italiana e che chiedeva di ottenere, da quelle terre, la ‘giusta mercede’, minacciando, altrimenti, di cedere ad altri il proprio giro di affari e di intrigo. Tra le cause della spedizione pure i mutamenti che aveva subito, nei mesi e anni precedenti, lo scacchiere e la politica internazionale.

Lo scacchiere internazionale

Agli inizi del Novecento la spartizione del mondo tra le potenze coloniali e’ già conclusa. Il Nord Africa come la quasi totalità del continente africano era nelle mani delle potenze europee. La Francia possedeva Algeria e Tunisia, la Gran Bretagna l’Egitto e a sud della Libia il Sudan. L’Italia rischiava di finire schiacciata tra Francia e Gran Bretagna e i movimenti nello scacchiere africano
‘costringevano’ l’Italia a fare una guerra per reclamare un posto di pari dignità con le altre potenze coloniali, come scriveva il ministro degli Esteri a Giolitti. L’occasione preparatoria fu l’occupazione del Marocco da parte della Francia nell’estate del 1911 dopo mesi di tensione franco-tedesca su quella regione. I precedenti accordi franco-italiani prevedevano un compenso territoriale per l’Italia se la situazione nel Mediterraneo fosse stata modificata. Quindi per l’Italia si trattava di esigere una sorta di “cambiale”c’è di riscuoterla non nel corno d’Africa, ormai bloccato da decenni al nostro espansionismo, ma nell’unica terra ‘vergine’, libera e facilmente conquistabile, quella dello ‘scatolone di sabbia’ libico.
Del resto, e per vari motivi Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Impero austro-ungarico erano a favore dell’occupazione italiana, a patto di fare in fretta e non provocare crisi internazionali di particolare gravità. A pochi anni dallo scoppio della I guerra mondiale, i rischi internazionali connessi all’intervento italiano stavano nel fatto che per conquistare la Libia l’Italia doveva dichiarare la guerra al moribondo impero ottomano (il “grande malato d’Europa”) che minacciava di sfaldarsi ogni giorno a causa dei nazionalismi balcanici (Serbia, Bulgaria, Montenegro, Macedonia, Grecia) mentre i russi minacciavano direttamente Costantinopoli con la richiesta del controllo dei Dardanelli. L’Italia, con il suo intervento, era questo il timore delle principali cancellerie europee, rischiava una crisi da esiti imponderabili. Certo e’ che anche l’Italia contribuì alla ‘grande guerra’ in incubazione in Europa attaccando un impero malato e mostrando a tutta l’Europa la sua cronica debolezza.
Come in tutte le guerre, l’Italia agita alcune giustificazioni propagandistiche e che verranno presto smentite dalla realtà dei fatti: si sostiene che gli arabi di Libia sono schiacciati dal governo turco e compito degli italiani è la liberazione dall’oppressione; si afferma che il territorio libico potenzialmente è ricchissimo e se i libici vivono in povertà la colpa è ancora una volta del governo di Costantinopoli; si grida alla mancata tutela degli interessi italiani in Libia da parte dei turchi, si citano decine di episodi in cui gli italiani sarebbero stati vittime di atti ostili. Tante giustificazioni, ovviamente, una più fragile dell’altra.

La retorica italiana della guerra nelle immagini del Corriere illustrato.

La retorica italiana della guerra nelle immagini del Corriere illustrato.

Propaganda di massa. Poesie e canzonette

 

Nella intensa campagna di propaganda condotta in patria per allargare il consenso e alimentare l’entusiasmo, la Libia viene presentata come una terra fertile, ricca d’acqua, di commerci carovanieri e di miniere; una “terra promessa” in grado di assorbire la disoccupazione italiana che, nei primi dieci anni del secolo, ha fatto emigrare sei milioni di lavoratori. In realtà la Libia è una regione immensa, sabbiosa, povera (il petrolio libico verrà scoperto solo dopo il 1950!) e poco popolata.
I motivi propagandistici agitati dai nazionalisti e dai circoli colonialisti e ripresi da quasi tutta la stampa alla vigilia dell’impresa sono riassunti da Giovanni Pascoli, a ostilità iniziate, nel famoso discorso La grande Proletaria si è mossa: la possibilità di dare soluzione al problema dell’emigrazione, il diritto dell’Italia alla conquista in nome della vicinanza geografica e della discendenza romana, la legittima aspirazione a diventare una grande potenza, la guerra come missione civilizzatrice e come prova dell’avvenuta unità nazionale.
La stampa, praticamente tutta su posizioni nazionaliste e filo-giolittiane (Corriere della Sera, Mattino, Stampa) alimenta l’idea di una vittoria facile e rapida presentando la conquista come “una passeggiata” priva di ostacoli, per l’inconsistenza numerica e militare dei turchi e per il desiderio dei libici di liberarsi dell’oppressione ottomana. Gabriele D’Annunzio, sul Corriere, contribuisce in prima persona alla formazione di un atmosfera bellicista e a odiare il nemico, descrivendo arabi e turchi come “non uomini, ma cani” (sic). Non di poco conto è anche l’uso, sperimentato per la prima volta, di nuove forme di comunicazione politica di massa come le ‘canzonette’ di guerra, tra cui la piu’ famosa, oltre che la prima, di tutte resta, ovviamente, “Tripoli bel suon d’amor”: la traduzione dell’epos militaresco in canzonette diventa la maniera piu’ efficace, anche se politicamente resta la piu’ elementare, per nazionalizzare le masse e togliere alle guerre la loro tragicità e crudeltà almeno nella rappresentazione.

 

Il nazionalismo politico e l‘interventismo democratico

In campo politico, liberali, cattolici e nazionalisti erano favorevoli alla conquista della Libia per considerazioni di politica internazionale, per motivi di prestigio nazionale, per interessi economici, per ragioni di politica interna. Anche giornali poco inclini al colonialismo, come il Corriere della Sera di Gabriele Albertini, diedero il loro contributo alla campagna a favore dell’impresa sostenendo la tesi che il territorio libico era una miniera intatta di grandi ricchezze naturali e che la sua conquista avrebbe risolto il problema principale dell’economia italiana, cioè la mancanza di materie prime e di risorse naturali. La stampa cattolica, per sostenere la penetrazione commerciale e finanziaria del Banco di Roma, alimentava la propaganda imperialista presentando la guerra contro la Turchia come una nuova crociata contro gli infedeli e l’occupazione della Libia come una conquista di anime alla cristianità, nonostante la dichiarazione ufficiale del Vaticano (ottobre 1911) che la guerra era soltanto “un affare assolutamente politico a cui la religione rimane perfettamente estranea”.
I più impegnati ed attivi nella campagna pro-guerra furono naturalmente i nazionalisti, i quali sfruttarono tutti i motivi disponibili – da quelli politici a quelli economici, letterari e ideali – per affermare la necessità dell’impresa, attraverso il settimanale “Idea nazionale”, uscito appena l’anno prima (1910), espressione del nuovo movimento nazionalista che faceva capo ad Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Francesco Coppola, Roberto Forges-Davanzati. Per i nazionalisti, l’imperialismo era una legge invincibile nella vita delle nazioni e l’Italia non poteva sottrarvisi. Dopo le umiliazioni di Dogali e Adua, bisognava riscattare il prestigio nazionale e affermare la vocazione italiana all’imperialismo con la guerra contro la Turchia e la conquista della Libia, la “quarta sponda” che i nazionalisti dipingevano come terra promessa, ricca di risorse agricole e minerarie, terra fertile che aspettava il lavoro “fecondatore” degli italiani.
Nonostante la ferma contrarietà’ della parte maggioritaria e ufficiale, oltre che piu’ popolare e rappresentativa, del Partito socialista italiano allora guidato da Filippo Turati, una parte non piccola dei dirigenti socialisti (soprattutto esponenti lombardi ed emiliani: Bissolati, Bonomi e Cabrini) difese l’impresa con il pretesto che la nuova colonia avrebbe coagulato l’imponente emigrazione che stava portando milioni di italiani verso il Nuovo Mondo. Esemplari, da questo punto di vista, proprio le celebri parole con cui il socialista patriottico (e prima mazziniano e repubblicano convinto) Giovanni Pascoli, massimo poeta italiano dell’epoca, descrisse l’impresa: “La grande proletaria delle nazioni scendeva in campo… si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Ma la Grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare”. Con tali argomenti Giovanni Pascoli toccava, peraltro, un nervo scoperto: il desiderio di riscattare l’Italia condannata all’emigrazione con la conquista delle colonie oltremare.
Aderì al movimento e alla retorica nazionalista persino un personaggio insospettabile come Teodoro Moneta, premio Nobel per la Pace nel 1907, patriota garibaldino e mazziniano che aveva partecipato alle Cinque Giornate di Milano, combattuto con Garibaldi sul Volturno e a Custoza.
Pochissime le voci critiche come quelle di chi ammoniva che si sarebbe conquistato solo uno “scatolone di sabbia” (l’esponente liberale e poi presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti) oppure una “voragine di sabbia” (Gaetano Salvemini, strenuo oppositore dei metodi di Giolitti, che definiva “ministro della malavita”, anche in politica interna): furono dileggiati e presto ridotte al silenzio.

Il premier di allora, Giovanni Giolitti.

Il premier di allora, Giovanni Giolitti.

L’imperialismo ‘straccione

Se la classe dirigente italiana voleva ed ebbe la guerra che Giolitti non poteva non darle, mai definizione ignominiosa fu piu’ azzeccata di quella che il teorico e poi protagonista della Rivoluzione russa e comunista dell’ottobre 1917, Vladimir Ilic Lenin, diede del nostro capitalismo proprio in occasione della guerra di Libia: “imperialismo straccione”. Mentre l’Italia della finanza e dell’industria si preparava alla divisione dei profitti, l’Italia rurale e operaia versava in condizioni di miseria e analfabetismo di massa che neppure i primi cinquant’anni dall’unità erano riusciti a modificare. Basti dire che nel 1911 metà dei coscritti alla visita di leva veniva mandata a casa per insufficienza toracica, debolezza, denutrizione e altro. Nello stesso 1911 a Verbicaro (Cosenza) vi furono moti popolari di protesta per il diffondersi del colera. Dopo cinquant’anni di vita nazionale si contavano 1.364 comuni senza acqua potabile, 4.877 senza fogne, 1.700 in cui non si mangiava pane, 4.355 in cui non si mangiava carne, 600 senza medici, 366 senza cimiteri (!), 154 distretti malarici, 100.000 abitanti colpiti da pellagra, 200.000 persone che vivevano in abitazioni sotterranee. La citazione esatta della frase di Lenin e’ la seguente: “L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli,che depreda la Turchia, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante,che all’idea di essere ammessa alla spartizione del bottino si sente venire l’acquolina in bocca”. Eppure, la spesa militare che dopo l’Unità converge sulle forze armate e’ impressionante. Secondo lo storico militare Giorgio Rochat dal 1861 al 1912 “le spese militari assorbirono una somma superiore al complesso di tutte le spese per l’amministrazione, la diplomazia, la giustizia, l’istruzione pubblica, i servizi, le opere pubbliche, gli interventi statali al servizio dell’economia”. C’e’ anche un ruolo delle Forze Armate nella scelta della guerra: l’Esercito voleva ‘vendicare’ Adua e Custoza, le ultime due grandi sconfitte militari italiane, la Marina voleva vendicare l’umiliazione di Lissa.

 

La guerra con la Turchia e la guerra civile

La guerra alla Turchia viene ufficialmente dichiarata dall’Italia il 29 settembre 1911 e il 3 ottobre, dopo un violento bombardamento navale, inizia l’invasione della Libia con lo sbarco dei primi marinai e soldati italiani a Tobruk e a Tripoli. I turchi però non si arrendono e la popolazione libica non solo non accoglie a braccia aperte gli italiani ma resiste, si unisce ai turchi e insorge, come a Sciara Sciat, un sobborgo di Tripoli (23 ottobre 1911), dove più di cinquecento bersaglieri vengono massacrati. La reazione italiana è feroce: fucilazioni e impiccagioni sommarie, legge marziale, deportazioni. Il 5 novembre, Vittorio Emanuele III proclama l’annessione di un territorio in realtà ancora tutto da conquistare. Nei mesi successivi, l’esercito italiano non arriva a conseguire una vittoria definitiva sulla inaspettata resistenza turco-libica. Quest’ultima si è organizzata in bande che conducono, fuori dalle città occupate, una guerriglia difficile da contrastare, nonostante il corpo di spedizione sia importante (35 mila uomini inizialmente, poi saliti fino a 100 mila, al comando del generale Carlo Caneva) e modernamente armato. Per la prima volta al mondo, ad esempio, vengono utilizzati aeroplani e dirigibili come armi belliche per operazioni di ricognizione, di intimidazione degli avversari, fotografia aerea, protezione delle colonne, aggiustamento del tiro di batterie terrestri e per compiere i primi lanci di bombe.
Dopo solo un anno di guerra, mentre i Balcani stanno esplodendo per le guerre tra i suoi piccoli stati e l’impero Ottomano e’ in pieno marasma, il 18 ottobre 1912 viene infine stipulata la pace (trattato di Losanna) che riconosce la sovranità “piena e intera” dell’Italia su Cirenaica e Tripolitania, come si chiamavano allora le due regioni che componevano l’attuale Libia, nome allora non ancora esistente. Inoltre, l’Italia ottiene il controllo dell’isola di Rodi e delle isole del Dodecanneso, già occupate militarmente a partire dal luglio del 1912, in cambio dell’impegno turco a far cessare la guerriglia libica contro gli italiani.
I territori libici passati sotto il controllo militare italiano però erano e saranno tutt’altro che pacificati. Un solo anno di guerra è costato all’Italia più di un miliardo (1 miliardo e 300 milioni circa, una cifra enorme per l’epoca) di spese militari, 3431 morti (di cui solo 1431 in combattimento e quasi 2 mila per malattie) e 4220 feriti, ma secondo l’Avanti!, organo del Partito socialista, alla fine della guerra e per colpa dell’epidemia di colera scoppiata quasi subito, il numero di morti, feriti e ammalati e’ molto piu’ alto: 52.431 la cifra dell’Avanti! Certo e’ che la “passeggiata militare” come venne definita la guerra italo-turca si trasforma presto in una ‘lunga marcia’ di odi, rappresaglie, torture, uso di gas e altri brutali metodi di repressione che, ‘grazie’ al Regio esercito e anche ai gerarchi fascisti (Balbo e Graziano) durerà piu’ di trenta anni rendendo la vita dei libici un’inferno fino alla proclamazione della Libia stato indipendente (1952) dopo la fine del regime fascista e la sconfitta dell’Italia nella IIGM.