Renzi e i suoi marines contro la minoranza Pd e i suoi vietcong. Due giorni di guerriglia ad alta intensità. Tema: la riforma del Senato

3 Agosto 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

NB: due articoli pubblicati qui di seguito sono usciti il primo il 2 agosto 2015 a pagina 6 del Quotidiano Nazionale mentre il secondo è uscito il 3 agosto 2015 a pagina 8 del Quotidiano Nazionale. 
1) Renzi: pazienza finita con i ribelli Pd: <Stop agguati o vi porto al voto a marzo 2016>.  Se in autunno la riforma non passa in prima lettura, sarà guerra totale con la minoranza.

Ettore Maria Colombo  – BOLOGNA –

Matteo Renzi e il Senato.

Matteo Renzi e il Senato.

CASO AZZOLLINI e voto al Senato. Caso Rai e voto, sempre al Senato, su quell’art 4 che ha visto la maggioranza di governo andare «sotto» grazie all’unione delle opposizioni e di ben 19 (su 25 potenziali) senatori della minoranza. Caso riforma del Senato e voto – dove? sempre al Senato, si capisce – che, ai primi di settembre, si trasformerà nella «prova regina», per Renzi. «O la minoranza si adegua e accetta il compromesso già proposto (elezione indiretta dei senatori mediante listino apposito, ndr.) – si ragiona a palazzo Chigi – oppure se vogliono guerra avranno guerra. Come si dice? A brigante, brigante e mezzo», sbotta Renzi che «di quelli» non ne può più.
FINO, appunto, all’«arma fine di mondo»: il ricorso alle urne anticipate (prima data utile: febbraio-marzo 2016) a costo di votare alla Camera con l’Italicum (legge già approvata, collegi già disegnati dal ministero dell’Interno sulla base di uno studio dell’Istat, pur se con dei “bachi” che urgono revisione) e, al Senato, con il Consultellum. Una doppia legge elettorale un po’ pazza (e molto “italica”) che però il vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, un pasdaran del premier, ritiene «uno scenario plausibile». E scenario che permetterebbe al segretario-premier d’imbastire una campagna elettorale tutta contro i «frenatori», i «gufi» e i «conservatori» anti-riforme e anti-italiani presenti sia «dentro» (la minoranza) che, naturalmente, «fuori» (Grillo e Salvini) il suo Pd. Si vedrà. Certo è che nel Pd è ripresa la guerra «tutti contro tutti» e, appunto, su tutti gli argomenti.
Si prenda, per dire, la giustizia. Renzi sfida i giudici («Non siamo i vostri passacarte») e – assicura chi, col capogruppo al Senato Luigi Zanda e i vicesegretari Pd, ha preso parte alla scelta di dare libertà di voto sul caso Azzollini – «ha preso tale decisione non per calcolo, ma per intima convinzione».
L’EX giudice ed ex (sconfitto) candidato sindaco di Venezia, Felice Casson, attacca con durezza il voto dei colleghi che hanno salvato il senatore dell’Ncd («Lo ha salvato la Casta infastidita dai pm»). Ben 12 senatori dem prendono carta e penna e replicano piccati: «parole offensive, sgradevoli, lettura fuorviante e caricaturale del rapporto politica-magistratura». Poi entrano nel merito, ma a pesare sono le firme: la giornalista antimafia Capacchione, il capogruppo in Giunta Immunità Cucca, e poi Ichino, Santini, Susta, etc.
Ma a bruciare, sulla pelle di Renzi, è ben altro, e cioè il voto sulla Rai che lo «costringe» a rinnovare il cda con la vituperata Gasparri.
L’attacco dei marines renziani (Carbone, Marcucci, pure Lotti) è spietato, violento, ad alzo zero. La replica dei vietcong della minoranza è altrettanto dura, spietata.
Le parole volano pesanti, tra colleghi, specie al Senato, neppure ci si parla più: «paiono due gruppi diversi, tra renziani e sinistra, anche fisicamente siedono distanti», nota un osservatore esterno.
In più, l’Unità perde ogni giorno l’occasione di portar pace. Federico Fornaro, che di suo sarebbe uno pacioso, le scrive una lettera piccata «amareggiato dalla ricostruzione» (il giorno dopo il senatore ed ex giornalista Massimo Mucchetti la paragonerà alla Pravda). E sarà pur vero, come dice Renzi, che «meno male, son pochi», quelli della minoranza, al Senato, ma se restano in 20-25 saranno dolori, per la maggioranza a settembre.
Se, invece, come già accaduto alla Camera, Renzi riuscisse ad asciugarli (grazie al suo Zanda, ovvio) a 10-15 pasdaran suicidi, allora sì che i verdiniani tornerebbero utili. Altrimenti, da settembre in poi, a palazzo Madama «si balla» e, forse, si va persino a elezioni. Lo sa Renzi, lo sa la sinistra dem.
2) Riforme, scontro finale nel Pd. Orfini: Vietnam? basta minacce. I ribelli annunciano emendamenti a raffica alla riforma del Senato. Boschi: noi giovani più saggi dei vecchi.
Ettore Maria Colombo – BOLOGNA

Il portone d'ingresso di palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica.

Il portone d’ingresso di palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica.

PATETICI. Irresponsabili. Figli della vecchia politica. Siete come Razzi, Scilipoti, anzi siete peggio. Teorici alla doppia morale. Vili. Traditori. Cercate imboscate. Assurdi. Minoritari. Inquietanti (sic). Inaccettabili. Anti-italiani». Ecco, queste solo nella giornata di ieri erano, scorrendo le agenzie, le dichiarazioni «ufficiali» di renziani di prima (Carbone Ernesto, Marcucci Andrea), seconda (Morani Alessia, Di Giorgi Rosa) e pure di terza fascia (la ex minoranza di «Sinistra è Cambiamento»: Mauri Matteo, Mirabelli Franco).
Senza dimenticare il presidente del partito, Matteo Orfini, che – forse anche per farsi dimenticare gli attriti con il premier su Roma – dismette i panni super partes per quelli del fustigator di costumi: «Che alcuni senatori del mio partito minaccino il ’Vietnam parlamentare’ contro il nostro governo a me pare incredibile», fa con un tweet. Infine, in serata, parla la Boschi: «la minoranza deve adeguarsi alla maggioranza» e «Toccherà a noi giovani esser più saggi di senatori che hanno più esperienza ma minacciano la guerriglia». Si distinguono, in ogni caso, tutti i renziani – veri o di complemento – sopraccitati per l’attacco a testa bassa contro la minoranza (quando si trovano tra loro i renziani li chiamano «minorati») del loro stesso partito, che sarebbe il Pd.
L’ACCUSA, roba da pena capitale, è di puntare, tramite una serie di emendamenti (almeno tre: Senato elettivo diretto e non di secondo grado; allargamento della platea dei Grandi elettori per l’elezione del presidente della Repubblica; placet di entrambe le Camere per il via libera ad alcune leggi) che verranno depositati la prossima settimana a palazzo Madama dai «vigliacchi traditori» medesimi, al «Vietnam», in Senato in merito alla riforma del Senato stessa.
La reazione dei «minorati» – che ormai si crogiolano nel definirsi vietcong, in ricordo della (vittoriosa) lotta anti-imperialista durante la guerra del Vietnam – è stata altrettanto accesa, dura, serrata: «non siamo i passacarte di palazzo Chigi» (Roberto Speranza); «siete diventati i volontari dell’intolleranza, pretoriani dell’obbedire senza discutere» (Chiti Vannino e Migliavacca Maurizio); etc.. Fino al dottor sottile Miguel Gotor che, già storico del caso Moro, già ideologo di Pier Luigi Bersani e, ora, «generale» delle truppe Vietcong (comandante in seconda il pacioso Federico Fornaro), sibila: «chi parla di Vietnam ha visto troppi film di avventura, cerca lo scontro».
ORA, stabilito che del «merito», in realtà, interessa poco e a tutti mentre della lotta politica interna al partito interessa assai (e a tutti), bisogna «fare a capirsi», quando si parla di Pd. Un certo grado (alto) di polemica interna è usuale, tra i dem, ma stavolta l’impressione è che il livello dello scontro stia, oggettivamente, «tracimando». I renziani non vedono l’ora di liberarsi di «gufi» e «rosiconi», e stavolta per sempre. Sia per creare un ‘vero’ «partito della Nazione» di centro che guarda a destra, e non certo più a sinistra, ma anche per iniziare a controllare sul serio e per davvero un partito che ancora gli sguscia via tra le mani, facendo in grande l’operazione di ‘normalizzazione’ già imposta all’Unità.
La sinistra interna, invece, che pure non ha intenzione di seguire i vari Fassina-Civati-Cofferati in scissioni «fumose e velleitarie» e continua a puntare a riprendersi il partito (la cara vecchia «Ditta»), inizia a puntare seriamente, più che alle elezioni anticipate, a un cambio di cavallo in corsa: non un Renzi bis, ma a un governo istituzionale, o «del Presidente», che – complice, oltre a Mattarella, un pezzo di Pd passato con Renzi che dovrebbe «ri-tradire» e tornare con loro (franceschiniani, fassiniani, Giovani turchi persino) – traghetti il Paese a fine legislatura e permetta di riprendere la «battaglia di lunga durata» e, poi, il Pd. Chi vincerà, alla fine, tra yankees renziani e vietcong (neo?) comunisti, non si sa. Una sola cosa è certa: la guerra in Vietnam, quella vera, alla fine non la vinse nessuno.