Riforme. Ecco chi, al Senato, alla fine aiuterà Renzi. Viaggio tra i numeri dei senatori “moderati” “responsabili” e “stabilizzatori”

10 Agosto 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

«QUANTE divisioni» ha, non il Papa, ma il fronte «anti-Renzi»? La domanda corre tra gli austeri stucchi di palazzo Madama, sede del Senato: oggetto, la riforma del Senato medesimo

L’esame della «madre di tutte le riforme» che dovrebbe archiviare per sempre il bicameralismo perfetto riprenderà il suo iter dall’8 di settembre (in teoria in I commissione Affari costituzionali, forse direttamente in Aua: dipende da cosa deciderà il governo), pur se orbato dai 513 mila emendamenti, di cui ben 510 mila a firma Roberto Calderoli, il che ha provocato un suplus di lavoro e ferie cancellate per un manipolo di funzionari del Senato che dovranno fornire ogni senatore (sono 312…) di ognuno dei 513 mila testi.
Su siti e giornali circolano, da giorni, cifre iperboliche: 175/177 sarebbero i voti contrari a Renzi. Mele sommate a pere: austeri autonomisti trentini, paciosi moderati e innocui democrat tutti inconsapevoli di esser diventati pasdaran anti-Renzi vestiti alla vietcong.
ORA, SE TALI cifre fossero reali la vita del governo Renzi sarebbe già bella che segnata. Perché se è vero che il voto sul ddl Boschi «non è» né equivale a un voto di fiducia, è stato Renzi stesso a legare l’esito delle riforme alla durata della legislatura. Persino uno “stabilizzatore” per eccellenza come Paolo Naccarato (Gal), rassicura e, insieme, ammonisce: «non ci sono rischi per il governo, ma Renzi si può complicare la vita a forza di pareri contrari su materie calde come l’elettività dei futuri senatori. Il mio modesto consiglio alla Boschi è di mediare, mediare, mediare e, se gira male, di rimettersi all’Aula, è meglio». Tradotto: per evitare che la maggioranza vada ‘sotto’ nelle migliaia di votazioni che ci saranno, il governo – che, su ogni ddl, può esprimere parere favorevole, contrario o astenersi nella formula, appunto, del ‘mi rimetto all’Aula’ – dovrebbe lavarsene le mani.
Sulla battaglia parlamentare, quella sui – presunti – contenuti, a partire dal famigerato art. 2, quello che verte, e divide, sull’elettività o meno dei senatori si vedrà: il ddl potrebbe andare direttamente in Aula, senza passare per la commissione (ma questo dipende dalle decisioni che prenderà il presidente Grasso come pure sulla questione dell’ammissibilità o meno delle modifiche all’art. 2, modifiche che la Finocchiaro in commissione boccerà…), il governo potrebbe forzare la mano o, invece, mediare con l’opposizione dem o cercare un nuovo abboccamento con FI facendo resuscitare il patto del Nazareno, ma una cosa è certa: sui numeri urge chiarezza.

SI ENTRA qui, però, nei misteri gloriosi di palazzo Madama: giungle di gruppi, sottogruppi, gruppi in nuce o neo-gruppi. Una giungla da far invidia a quelle salgariane. Partiamo dai fatti: perr sopravvivere, al Senato, bisogna godere di 161 voti o plenum dell’Assemblea, composta da 321 membri (315 quelli eletti e 6 i senatori a vita). La maggioranza di governo (epoca Renzi) viaggia, sui vari provvedimenti, su una media di 168-170 voti, a volte 173-175, ma furono ben 184 i sì al governo proprio alla I lettura del ddl Boschi (8 agosto 2014).
Voti così composti: 112 del Pd (sarebbero 113 ma Grasso non vota), 35 di Ap (Ncd+Udc), 19 (su 19) del gruppo Autonomie, tre (Naccarato, D’Onghia, Davico) su 11 in Gal, sei (Monti, che siede qui, a differenza degli altri senatori a vita, che stanno tutti nelle Autonomie, Della Vedova, Rossi, ex Sc, Margiotta, ex Pd, e la coppia Bondi-Repetti) sui 30 del Misto. Più, a partre da domani, i 10 verdiniani di Ala. Morale: il “tesoretto” di 172 voti potrebbe arrivare fino a 182. Ma a complicare la vita a Renzi è arrivata la minoranza dem: a firmare emendamenti a favore del Senato elettivo sono stati in 28, numero assai alto per dei vietcong. Se davvero 28 senatori dem si sfilassero dal gruppo del Pd non ci sarebbe più storia: 182 – 28 fa 154. Addio maggioranza e governo, anche con i verdiniani a favore.
Senza i verdiniani, ma con un’emorragia di soli 15 senatori dem (ipotesi molto più realistica), si scende a quota 167 e la maggioranza regge: non è altissima, ma resta piena.
Difficile pensare che Renzi, al netto dei pasdaran (Gotor, Chiti, Mineo, Tocci, Casson, Corsini, Fornaro, Dal Moro: non si arriva a dirne dieci mai, neppure pensandoci molto), non riesca ad assottigliarne le fila. Anzi, sia a palazzo Chigi che il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, sono sicuri di recuperarne 10-15, «quelli che non parlano mai, stufi dei protagonismi dei vari Mineo e Gotor…», malignano i renziani.
UNA COSA è certa. Il conto delle presunte quadrate legioni pronte a fare opposizione alla riforma di Renzi e al suo governo non torna. Partiamo dai dati certi: la somma di M5S (35), Lega Nord (12), FI (45), Conservatori e riformisti (10, i fittiani), 24 senatori su 30 del Misto (7 di Sel e 12 ex M5S: tra loro, vendoliani ed ex grillini, presto costituiranno un gruppo nuovo; i tre tosiani di “Fare”, etc.), 8 su 11 di Gal, fa 135 voti. Davvero pochini, insomma, per impensierire il governo. Certo, uniti ai 28 senatori dem della minoranza, la somma fa 163, quindi supera, anche se di poco, i 161 voti (quorum del plenum si usa dire, con un brocardo latino) ma sarebbe né più né meno di un’armata Brancaleone che difficilmente riuscirebbe ad esprimere una linea politica alternativa a quella di Renzi. Senza dire che i 45 senatori azzurri dovrebbero, invece che acconciarsi a un nuovo Nazareno, dovrebbero trasformarsi in altrettanti vietcong pronti a morire. Direbbe Totò, la somma non fa il totale.
Impossibile, infine, arrivare alla tanto strombazzata quota 175/177, per il fronte delle opposizioni, senza l’apporto di due gruppi minori e poco noti ma consistenti: quello di Per le Autonomie (19) e quello di Gal (11). Ora, il gruppo “Per le Autonomie” è composto da cinque silenziosi senatori di Svp-Patt, che chiedono solo garanzie per le loro, di Autonomie, dentro la riforma; due eletti all’Estero (Maie), tre socialisti di cui solo uno (Buemi) crea grattacapi al governo, anche perché l’altro (Nencini) al governo ci sta, come pure ci stanno, comodi, altri tre Popolari (ex Per l’italia…), quieti e pii; più 5 senatori a vita (Naapolitano, super tifoso delle riforme, Rubbia e Piano, molto assenti ma più scettici, Cattaneo e Ciampi, non pervenuti). Prima che uno qualsiasi di questi senatori faccia cadere il governo, nuovi mondi abitabili saranno scoperti e nuovi soli sorgeranno.
E se persino dentro il fritto misto del gruppo Misto spuntano, come fiori di serra, i nuovi “stabilizzatori” (la coppia Bondi-Repetti), è dentro Gal (Grandi Autonomie e Libertà) che molto si muove: oggi votano con Renzi in tre, ma domani, questo è sicuro, cresceranno. Alcuni ex grillini (De Pin, Pepe) sono approdati lì, nel Gal, e presto, con Davico (ex Lega), daranno vita ai “Moderati”, formazione collegata a una analoga presente alla Camera e guidata dal piemontese Giacomo Portas: altri e nuovi voti in cascina per il governo. Perché la vera funzione del senatore è “stabilizzare”, “moderare”, “temperare”. La vita, pur romantica, ma assai perigliosa e sempre all’adiaccio, del vietcong armi in pugni, non s’addice al senatore – antico e moderno – proprio come il lutto non si addiceva ad Elettra.
NB. Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2015 a pagina 6 su Quotidiano.net