NEW! Come ti blocco il ribelle (con replica finale del senatore Fornaro). Il piano di Renzi per blindare il voto sulle riforme passa per la riforma dei Regolamenti dei gruppi di Camera e Senato

17 Agosto 2015 1 Di Ettore Maria Colombo
Matteo Renzi parla alla Direzione del Pd.

Matteo Renzi parla alla Direzione del Pd.

«ALLA Camera, dove abbiamo numeri solidi e non ce n’è bisogno, si inasprirà il Regolamento interno come ha deciso il capogruppo Rosato. Al Senato, dove ce ne sarebbe assai bisogno perché abbiamo numeri risicati, non si farà nulla: i dissidenti diventerebbero dei martiri e, se li cacciamo, quelli sempre lì restano, a votarci contro». Il senatore di provata fede renziana coglie il punto del tormentone estivo dem che agita i sonni di palazzo Chigi: che fare dei “reprobi”? E, ove votino contro l’indicazione del gruppo in votazioni dirimenti, dalle riforme alla fiducia, quali “sanzioni” comminare loro?
Ai tempi del Pci, il problema neppure si poneva: vigeva il «centralismo democratico». Traduzione: discussioni infinite e volo di stracci, all’interno, ma poi, quando si usciva all’esterno, in aula o in pubblico, tutti d’amore e d’accordo. La pena più raffinata era obbligare l’alfiere, sconfitto, della tesi opposta alla tua, a darti ragione in pubblico. Un caso tra i tanti: Gerardo Chiaromonte, esponente dell’ala migliorista, quella più vicina e interessata al dialogo con il Psi, fu obbligato, dallo stesso Enrico Berlinguer, a intervenire in Aula proprio contro il decreto del governo Craxi sulla scala mobile (1984).
In un partito magmatico come la Dc, paradossalmente, si andava ben più per le spicce: nel 1949 Giuseppe Dossetti e altri esponenti della sinistra dc furono obbligati a votare “sì” alla Nato, in Aula, pur dopo aver votato “no” dentro il gruppo. Mario Melloni, poi meglio noto come Fortebraccio, fu cacciato dal gruppo e dal partito per aver votato “no” in Aula contro la Ced (Comunità europea di Difesa, poi in realtà mai nata, ma per colpa della Francia). E pure riguardo il famoso caso che riguarda l’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, le sue dimissioni dal VII governo Andreotti nel 1991 perché contrario alla legge Mammì, si omette sempre il particolare di Mattarella che, tornato deputato semplice, vota la fiducia allo stesso governo… Nel Pds-Ds ognuno faceva un po’ come gli pareva, dall’Iraq in poi. Nel Prc non solo era prassi votare contro il proprio gruppo e partito, ma di solito seguiva una bella scissione e ‘amici/nemici’ come prima (Comunisti unitari 1995, Pdci 1998, etc).
Il Pd, alle prese con decine di voti «ribelli» (Pippo Civati, prima di uscirne, si vantava: «non ho mai votato una fiducia in tutta la legislatura né a Letta né a Renzi»…), vorrebbe metterci una pezza, ma esita, tentenna e, per ora, riflette.
Alla Camera, il capogruppo, Ettore Rosato, ha messo al lavoro un gruppo di studio, guidato dal toscano e renziano Dario Parrini: i novelli saggi studieranno, valuteranno, ma alla fine per decidere servirà un voto. Da prendere dentro al gruppo e, se possibile, tutti assieme.
Al Senato, «il problema non c’è», dice il coro dei renziani, «il regolamento che abbiamo basta e avanza, salva solo i casi di coscienza», si specifica. E, in effetti, se si va a compulsare il Regolamento del gruppo del Pd al Senato c’è la risposta a tutte le domande: infatti, stabilito in via preliminare e generale, all’art. 2 comma 5, che “Su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana e le convinzioni etiche di ciascuno, i singoli Senatori possono votare in modo difforme dalle deliberazioni dell’Assemblea del Gruppo ed esprimere eventuali posizioni dissenzienti nell’Assemblea del Senato a titolo personale, previa informazione al Presidente o Vice Presidenti del Gruppo”, all’art. 13 dello stesso Regolamento sono indicate specifiche ‘sanzioni’ contro i voti in dissenso. Eccole elencate di seguito:
Art. 13 – Sanzioni
1. Il Direttivo, su proposta del Presidente, in caso assenze ingiustificate e reiterate o per gravi violazioni del presente Regolamento, nonché del Codice Etico del Partito Democratico, può assumere i seguenti provvedimenti:
a) richiamo orale;
b) richiamo scritto;
c) sospensione, fino a dieci giorni, dalle cariche interne al Gruppo o dalla partecipazione all’Assemblea del Gruppo;
d) esclusione dal Gruppo.
2. Contro le decisioni del Direttivo il Senatore può far ricorso all’Assemblea.(http://www.senatoripd.it/doc/334/regolamento-del-gruppo-del-partito-democratico.htm)
Il regolamento del Gruppo fu applicato, per la verità, una sola volta, e nella passata legislatura (2008-2012), anche se in un caso davvero eclatante: Riccardo Villari, oggi senatore per Forza Italia ma la volta scorsa eletto con il Pd, era stato nominato presidente della commissione di Vigilanza Rai con i voti del centrodestra ma senza quelli del Pd. Gruppo e partito gli chiesero di dimettersi, lui non ne volle sapere e, dunque, fu espulso, con decisione presa dal Direttivo del gruppo, all’epoca guidato da Anna Finocchiaro. Oggi, però, tutto sembra diverso. I casi alla Villari, già moltiplicati, ora rischiano di aumentare. La verità è che il capogruppo Luigi Zanda, per ora, preferisce queta non movere. Con tutti quei vietcong che s’aggirano a palazzo Madama, meglio darsi – tutti – una bella calmata.
«IL PROBLEMA regolamentare c’è eccome», sostiene, invece, Salvatore Vassallo, estensore dello Statuto del Pd (quello primigenio del 2008). «Le sanzioni, pure previste negli statuti di entrambi i gruppi parlamentai dem (ammonizione, sospensione, radiazione), non sono cogenti». «Vuol dire – spiega Vassallo – che non c’è relazione tra atto e pena. Le sanzioni andrebbero ancorate a una data precisa (esempio: entro tot giorni dal voto in dissenso) e a un organo specifico (esempio: il direttivo del gruppo). Oggi, invece, sia pur previste, le sanzioni, nessuno sa chi le da, quando, come, etc».
Al di là della questione tecnica, resta intatto il problema politico: il “Civati” di turno (D’Attorre alla Camera, per dire, ma soprattutto i 25/28 senatori vietcong al Senato), a te Pd (inteso come segretario, leader, premier e Nazareno-partito) ti scassa di più «i cabasisi» (la citazione è di Montalbano-Camilleri) se te lo tieni dentro così poi ti fa la guerriglia all’infinito, o se lo sanzioni, lo sbatti fuori dal partito, ma così poi lo trasformi in un “martire”? La prima che hai detto, pensa, ma chissà ancora per quanto, Renzi. Anche se, ovviamente, la cosa più semplice resta sempre la stessa. non ricandidare i reprobi alla prossima tornata elettorale quando, presto o tardi, essa si terrà.


POSTILLA. Il senatore dem ‘ribelle’, della minoranza bersaniana, Federico Fornaro, spiega, a margine di questo articolo, parlando sempre con QN: “Nelle classifiche di Open Polis (sito Internet che raccoglie tutti i dati e le attività sui parlamentari, ndr.) sulle presenze dei senatori io sono il secondo di tutto il Senato e il collega Carlo Pegorer (ribelle anche lui, ndr.) è il primo per presenze, attività legislativa e assiduità. Inoltre, sempre su Open Polis, è facilmente riscontrabile come i nostri presunti voti dati ‘in dissenso’ siano in realtà pochissimi e si limitino, in oltre due anni, a sole due occasioni: l’essere usciti dall’Aula al momento del voto sull’Italicum (come si sa, restare in Aula e astenersi al Senato equivale a dare voto contrario, ndr.), un gesto assai distensivo verso il governo e voto che coinvolse 24 senatori (2014), e il voto contrario – dato a luglio 2015 – sulla delega alla riforma della Rai che ha visto 19 voti contrari e tre astensioni all’articolo 4 del ddl governativo, quello sul canone Rai, come avevamo ampiamente annunciato in commissione e in aula (votando così, però, l’effetto del voto in massa dei 23 senatori dem ribelli si è sommato a quelli delle opposizioni, mandando sotto il governo al Senato, ndr.)”. “In ogni caso – conclude Fornaro – la nostra opposizione all’elettività indiretta dei senatori contenuta all’art 2 del ddl Boschi non inficia la nostra volontà di portare a termine una storica riforma, quella che vuole superare il bicameralismo perfetto. Siamo pronti in ogni momento a confrontarci con il governo per discutere le nostre proposte sull’elettività diretta dei senatori, e relativa elezione di tipo proporzionale, che aggraverebbero solo di un passaggio in più l’iter del ddl Boschi, ddl che, in ogni caso, dovrà comunque ritornare alla Camera per le correzioni all’articolo 2”.
Prendiamo atto e riportiamo la precisazione di Fornaro, ma resta in campo il punto: se si arriverà al muro contro muro, tra minoranza e maggioranza nel Pd, quali armi saranno usate – ‘se’ saranno usate per cercare di arginare o asciugare il dissenso? Solo a questa domanda intendeva rispondere l’articolo riportato sopra per esteso. 
EMC  


NB. Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2015 a pagina 6 del Quotidiano Nazionale