Senato, Renzi accelera i tempi, ma i ribelli hanno un asso nella manica, il presidente Grasso

1 Settembre 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

PALAZZO Chigi e il Nazareno sanno di avere davanti a sé, sulla riforma del Senato, due nemici: uno interno, la minoranza del Pd, assai agguerrita, e un esterno, il presidente del Senato Grasso, assai insidioso.

Lo sfogo contro il nemico numero 1 arriva da un senatore renziano: «La minoranza vuole andare allo showdown finale? A costo di mandarci sotto e obbligarci alle elezioni anticipate? Si accomodino. Però sappiano che, come ha detto il nostro capogruppo, Luigi Zanda, il Pd non può essere meno gestibile di un’assemblea di condominio».
MAN MANO che ci si avvicina alla data fatidica (8 settembre il giorno in cui il ddl Boschi sulla riforma del Senato riprenderà il suo iter) è sempre più evidente che il problema è, appunto, «politico». Le modalità «tecniche» per venirsi incontro, volendo, ci sono. Le ha individuate la presidente Finocchiaro (spostare in capo all’art. 10, e non all’art. 2, già votato in modo identico dalle due Camere, l’elettività dei senatori) e alcuni governatori (lasciare alle singole regioni la scelta dei futuri senatori). Ma il massimo della concessione possibile individuata (un «listino» in cui eleggere i senatori tra i consiglieri regionali: indicati dai partiti, ma scelti, indirettamente, dai cittadini) non basta ai vietcong Pd: vogliono l’elettività diretta e amen. Il problema, così, resta «politico»: se la minoranza (i 25 vietcong dem, sicuramente asciugabili a 15, nel senso che un drappello di 10 pronti a cedere le armi ci sarebbe) non cede e si somma, nel voto finale, alle opposizioni, la frittata è fatta. Vero è che, in questa fase, basta la maggioranza semplice, per passare, al Senato, ma prima o poi il problema della fatidica soglia dei 161 voti (quorum del plenum dell’Aula) si riproporrà, nelle successive letture. Il governo ha numeri, allo stato, pure alti (183, grazie al nenonato gruppo Ala, i verdiniani), ma crollerebbe a 158, sotto quota 161 se tutti i ribelli restassero compatti. Sempre che al governo non arrivino nuovi apporti (forzisti inquieti, vendoliani dati in uscita come Dario Stefano, ex M5S ora Idv…) o un nuovo «patto del Nazareno» mignon sotto forma di «non ostilità», forse uscendo in un po’ dall’Aula.

Ieri della situazione a dir poco incresciosa che si sta creando al Senato, hanno di certo parlato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo predecessore, Giorgio Napolitano, che è salito al Colle per fargli visita. peraltro, si dice che proprio Mattarella potrebbe intervenire, con una sorta di moral suasion, su Grasso per convincerlo a riaprire alla discussione e al voto solo l’emendamento sulla preposizione famosa (“dai” e “nei”) e non sull’intero articolo 2, dando di fatto una mano al governo e limitando il potere di interdizione della minoranza dem e delle opposizioni.
Resta che «Renzi vuole andare avanti, come un treno, sulle riforme», dicono i suoi, «è pronto a concedere qualcosa sulle funzioni del nuovo Senato, ma sulla non elettività dei futuri senatori non cede».
Ne consegue la strategia già studiata da Zanda e i suoi: qualche giorno di dibattito in commissione, rapida presa d’atto che la mole degli emendamenti (513 mila) è inaccettabile, seguente richiesta di passaggio al voto direttamente in Aula. Il tutto, scrive oggi Repubblica in un retroscena, con tempi che non cavallino settembre anche per permettere che la prima lettura del ddl Boschi arrivi a dama entro e non oltre il mese di ottobre, quando le Camere saranno assorbite dalla discussione sulla Legge di Stabilità per il 2016.

ED È QUI, però, che entra in gioco il secondo nemico sul campo di Renzi, anzi forse il generale Giap dei vietcong. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, che – sospira un senatore renziano che ne segue bene le mosse – «gioca una partita tutta sua, da presunto statista del futuro». Grasso, infatti, pur smentendo i retroscena che lo vedono già pronto ad avallare la posizione delle opposizioni e della minoranza dem sulla emendabilità del famoso art. 2, non può smentire il suo passato. Culturalmente e politicamente lontano da Renzi e dal suo mondo, bersaniano prima e para-grillino poi, sacro custode di un’istituzione, il Senato, i cui alti funzionari (la segretaria generale Serafin e molti altri) hanno persino sfornato un dossier «anti» ddl Boschi («ne esce un Senato pasticciato e inutile», testuale), affascinato da scenari futuribili (l’incarico da premier se Renzi fallisse), Grasso ha già fatto diversi sgarbi, a Renzi. Non sostituire dei membri in I commissione, dove il governo rischia a ogni passo, e neppure in Giunta per il Regolamento, dove la maggioranza non ha la… maggioranza (sic) e dare, spesso e volentieri, ragione ai tempi e alle proteste delle opposizioni su leggi cruciali.
«Succederà anche sull’art. 2, in Aula», sospira un renziano, «e quando si aprirà lo scontro finale, lo so già: avremo anche Grasso contro, oltre alla minoranza e opposizioni». Dura la vita, a palazzo Madama, per i pur sfrontati marines yankees.


NB. Questo articolo e’ stato pubblicato il 1 settembre 2015 a pagina 9 di Quotidiano Nazionale