“Basta con l’ansia da elezioni”. La nuova strategia di Renzi sul referendum

23 Agosto 2016 0 Di Ettore Maria Colombo
Renzi/3

Matteo Renzi e il Senato

«SLEGARE la fine della legislatura dall’esito del referendum» è il nuovo mantra che, da quando – appena l’altro ieri sera, peraltro – il premier Matteo Renzi ha profferito le fatidiche parole «comunque si voterà nel 2018», viene propalato a larghe mani dal Pd a trazione renziana. Il problema è che nella nuova strategia comunicativa del premier sul referendum, quella improntata all’ormai fatidica «spersonalizzazione» della contesa, non più assurta a giudizio di Dio (sconfitta ‘uguale’ fine del governo, del Pd e della legislatura, ergo: «vi conviene farci vincere»), è entrato un elemento di valutazione fino a ieri mai seriamente preso in considerazione. La non più remota possibilità che Renzi il referendum lo perda, di poco o di molto. Ne segue una lunga serie di variabili, tutte oggi allo studio della war room di palazzo Chigi come del Nazareno.
CONVIENE partire dai fondamentali propalati fino a pochi mesi fa: «Renzi è sicuro di vincerlo, il referendum e, come ha ribadito lui stesso alla Versiliana – spiega un colonnello renziano – farà quello che ha detto». Vuol dire, appunto, dimettersi da capo del governo. Ad adiuvandum, il ministro Graziano Delrio ribadisce da Reggio: «Se perdiamo, andiamo tutti a casa». Insomma, non ci sarebbe alcuna novità: se Renzi perde, rassegna le dimissioni e sale al Quirinale, cui restano tutte in mano le prerogative sul ‘dopo’: nuovo incarico a Renzi – via nuova richiesta di fiducia da parte delle Camere – governo di scopo (per fare la legge elettorale e proseguire la legislatura sino alla sua conclusione naturale) o governo istituzionale (Grasso?) per mettere in sicurezza la legge di Stabilità e poco più, mettendo quindi nel conto elezioni anticipate a breve, nel 2017.
Da quando, però, la sconfitta al referendum è entrata nel novero delle opzioni e la spersonalizzazione è il nuovo input del guru Messina, sono state prese in considerazione tutte le (eventuali) subordinate anche da parte del premier attuale. La prima è divenuta già vulgata comune: il «mi dimetto da tutto, lascio la politica» del Renzi prima maniera non prevede più le dimissioni da segretario del Pd. Renzi, cioè, si dimetterebbe da premier, ma in quanto segretario del principale partito in Parlamento il suo parere sarebbe determinante per assicurare i voti a qualsiasi nuovo governo di fine legislatura.
IL SECONDO passaggio, e qui siamo a ieri, arriva dopo le ansie post-Brexit che soffiano in Europa. I mercati, i centri di potere economici internazionali legati al libero mercato e rappresentati da giornali autorevoli (WSJ, Financial Times, Times, New York Times) e, naturalmente, le istituzioni Ue (Bce, Commissione, Germania) temono che, con la sconfitta di Renzi, si apra un periodo di crisi e ingovernabilità devastanti non solo per l’Italia, ma per la stabilità della stessa Ue e per l’Euro. La stessa preoccupazione anima i pensieri del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che chiede di coltivare «la virtù della prudenza» (a Renzi) e pretende «unità intorno alle istituzioni» (a tutti), qualsiasi sia l’esito del turno referendario.
Renzi, dunque, prova a raffreddare il clima: «Non succederà nulla», è il messaggio, né scioglimenti delle Camere né elezioni anticipate, sia che vinca il Sì sia che vinca il No. Il guaio è che la nuova linea è poco credibile. Forse, se vince il Sì, i suoi oppositori interni e i suoi alleati minori possono, a partire da oggi (cioè a partire dalle ultime parole di Renzi), sperare che Renzi non precipiti il Paese alle urne per «passare all’incasso» e «farli fuori» dalle liste. Infatti, ieri, Alfano esultava davanti al nuovo, o presunto tale, Renzi-pensiero mentre tutti i partiti di opposizione ne denunciavano polemici la contraddizione con il «mollo tutto» di poco tempo fa. Ma è molto difficile che Renzi si acconci a scenari da perfetto perdente. Scenari che, alla fine, si riassumono in uno: sconfitta al referendum, breve passaggio al Quirinale, nuova fiducia a un Renzi bis che andrebbe avanti azzoppato e appannato per il resto della legislatura, potendo fare poco e dovendo concedere molto.
ECCO, immaginarsi un Renzi remissivo e in balia degli eventi, oltre che delle correnti interne del Pd – le quali gli demolirebbero pezzo su pezzo prima la legge elettorale e poi il controllo del partito – è ai confini della realtà. E dunque? La risposta è nella linea di affinamento della campagna per il Sì che sta per dispiegarsi pienamente da fine agosto: picchiare duro contro D’Alema, «che volle la Bicamerale, dimenticandosi il conflitto d’interessi»; contro la sinistra dem, che «non vuole abbassare le tasse»; contro i leader di Lega e M5S, ma blandendo i loro elettorati (indispensabili per trovare 16 milioni di Sì, tanti sono i voti necessari), «i migliori alleati della Casta che vuole tenersi strette le poltrone»; non infierire su Berlusconi, ma solo su Brunetta, ‘compare’ di D’Alema, «i migliori spot del Sì». Non foss’altro perché Berlusconi lui sì che sarebbe indispensabile per qualsiasi governo di larghe intese post-referendum. Insomma, se Renzi vince bene, potrebbe ‘aprire’ a un nuovo patto del Nazareno di fine legislatura; se vince male, ne avrebbe vieppiù bisogno; se perde di poco l’aiuto del Cav sarebbe indispensabile, stante la rivolta nel suo partito, pronto a detronizzarlo. Solo se Renzi perdesse, male e di molto, il referendum, il desiderio di gettare la spugna tornerebbe a farsi realistico e pressante. Ecco perché, a prescindere che vinca o perda il referendum, a Renzi il Cav tornerà sempre utile.


NB. Questo articolo è stato pubblicato a pagina 12 del Quotidiano Nazionale del 22 agosto 2016.