Cosa farà Renzi se perde il referendum: nessun governo amico, niente transizione soft, meglio le urne anticipate

18 Novembre 2016 0 Di Ettore Maria Colombo
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Matteo Renzi parla alla Direzione del Pd.

C’è già chi si vede – e chi già si pregusta – la scena. Nella notte di domenica 4 dicembre la vittoria del No esce fuori, dalle urne del referendum, incontrovertibile. Matteo Renzi, che proprio ieri ha detto «quando andrò via da palazzo Chigi lo farò con il sorriso perché non si va via da palazzo Chigi con il broncio», la mattina del 5 dicembre sale al Quirinale e rassegna le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato.

Del resto, come ha detto il premier sempre ieri, «se volete un sistema in cui si torna agli inciuci, prendetevi quelli di prima». «O si cambia – ha continuato Renzi di prima mattina, parlando a Rtl 102 – o se vogliono galleggiare ne trovano altri, si resta coi soliti, ma se qualcuno vuole fare strani pasticci il giorno dopo, li fa senza di me».

Cosa succederà a quel punto? Fino a pochi giorni fa, molti osservatori erano convinti che Renzi aveva in mente di rimanere in sella ancora qualche settimana per gestire l’ordinaria amministrazione, tra cui l’approvazione definitiva della Legge di Bilancio per evitare guai interni (l’esercizio provvisorio) ed esterni (le procedure di infrazione Ue). Poi, dimissioni e governo che passava di mano, ma non di molto, e cioè a uno dei suoi uomini più fidati. Un governo guidato da uno dei suoi attuali ministri (Padoan e Delrio i nomi più gettonati, solo in subordine Franceschini) che avrebbe visto il Pd di Renzi continuare a farne parte attivamente, con ministri di peso e sicuro sostegno da parte dei parlamentari del Pd.
Ma lo scenario di una «transizione dolce» è già tramontato. Non solo Renzi si dimetterà, dato di fatto incontrovertibile («Io non resto abbarbicato alla poltrona»), non solo non vuole assicurare al Paese alcuna «transizione dolce» («Il 5 dicembre non c’è l’invasione delle cavallette o l’Armageddon»), ma non ha intenzione – e qui sta la novità – di sostenere alcun governo di scopo. «Non posso essere io – ha detto sempre ieri – quello che si mette d’accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo» o, come lo ha bollato già giorni fa, «un governicchio tecnichicchio». Insomma, nessun aiuto – neppure a Mattarella – a tirare le castagne fuori dal fuoco. Renzi si godrà lo spettacolo di un governo che <aumenterà le tasse> e <prenderà gli ordini da Bruxelles> da casa, davanti alla tv. Con una differenza non da poco, però, rispetto all’ipotesi classica del ‘novello Cincinnato’: Renzi intende restare, e saldamente, alla guida del Pd anche perché qualsiasi sconfitta, anche pesante, al referendum, gli permetterebbe comunque di sostenere che quei milioni di voti arrisi al Sì (almeno dal 40% in su) sono voti dati a lui e alla sua concezione di Pd.
Morale: un governo «istituzionale» o «di scopo», quasi sicuramente a guida Grasso, oggi presidente del Senato, si dovrebbe guadagnare la fiducia del Pd, ancora saldamente in mano a Renzi, voto dopo voto. Per esempio: bisogna rifare la legge elettorale come ammette lo stesso Renzi? Bene. Ma non è affatto detto che i voti del Pd a una nuova legge elettorale saranno «a gratis». Per un proporzionale puro, per dire, quei voti non ci sarebbero. Il Pd di Renzi metterebbe paletti invalicabili: sì ai collegi, niente preferenze, premio di maggioranza serio, pur dovendo rinunciare al ballottaggio, e via così.
E quanto durerebbe un governo di scopo cui il Pd darebbe una fiducia stentata, a tempo, voto su voto? Poco: forse tre mesi, forse sei. Il tempo, appunto, di fare la nuova legge elettorale. Poi, si va a votare. Certo, causa scatto del vitalizio (per i nuovi parlamentari matura solo dopo quattro anni e sei mesi), Renzi rischierebbe di dover aspettare le nuove elezioni fino a novembre 2017. Un bel rischio perché si ritroverebbe, invece e di certo, con la richiesta di congresso straordinario anticipato, da parte dei suoi nemici interni (più sicuri e baldanzosi di ora, oltre che cresciuti di numero), per la prima metà del 2017.
Il luogo giusto, il congresso, per disarcionarlo anche da segretario e scindere, per sempre, le cariche di segretario e candidato premier. Un motivo in più, agli occhi di Renzi, per farlo cadere presto, un governo di scopo, una volta trovato l’accordo con i centristi (e con FI) per una nuova legge elettorale. Il timing perfetto, per Renzi, sarebbe crisi di governo a marzo ed elezioni anticipate in aprile. Perché, a giugno, al vertice del G7, Trump presente, già fissato in Sicilia, vorrebbe esserci sempre lui, in sella. Da premier ancora in carica, se vincerà il Sì. Da candidato premier che, dopo un salutare passaggio a una opposizione dura ai «governicchi», vince elezioni politiche anticipate quanto «vere», e cioè corroborate da cotanto di legittimazione popolare, se il 4 dicembre vincerà il No. Non resta che attendere.


NB. Questo articolo è stato pubblicato sul Quotidiano Nazionale il 18 novembre 2016 (www.quotidiano.net) a pagina 8