NEW!!! Pd, il ‘mistero’ del congresso anticipato. Braccio di ferro tra renziani e minoranza a colpi di regolamento sullo Statuto. I dubbi amletici di Renzi in attesa dell’Assemblea nazionale del 18

14 Dicembre 2016 1 Di Ettore Maria Colombo

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ANSA ULTIMA ORA: “ANALISI SITUAZIONE POLITICA E DETERMINAZIONI CONSEGUENTI”. È QUESTO, A QUANTO SI APPRENDE DALLE AGENZIE DI STAMPA, L’ORDINE DEL GIORNO IN CALCE ALLA CONVOCAZIONE DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE DEL PARTITO DEMOCRATICO CHE SI TERRA’ DOMENICA 18 DICEMBRE A ROMA. LA FORMULA DELLA CONVOCAZIONE, SPIEGANO FONTI DEM, LASCIA APERTA LA POSSIBILITÀ CHE L’ASSEMBLEA DECIDA DI CONVOCARE IL CONGRESSO DEL PARTITO. L’ASSEMBLEA INIZIERÀ ALLE 10.00 ALL’HOTEL ERGIFE DI ROMA.

1) Pd appeso all’indecisione di Renzi. Primarie aperte o congresso normale il dilemma. L’obiettivo del segretario dem resta comunque il voto anticipato tra maggio e giugno.

 
MATTEO RENZI dice ai suoi di volersi tenere in queste ore «mille miglia lontano dalle beghe romane», rintanato com’è nella sua Pontassieve, dove porta i bimbi a scuola e a calcetto. E a chi gli chiede se ha  in mente – e quale – “un blitz romano” risponde ironico che “per ora mi milito a fare un blitz alla Coop…”. Certo è che «non ha ancora deciso». In realtà, ha davanti ha sé un orizzonte politico ben chiaro: legge elettorale entro febbraio ed elezioni tra maggio giugno, con due data cerchiate in rosso sul calendario, il 20 maggio e il 4 giugno, il che però non è indifferente perché vuol votare prima o dopo il G7 a Taormina. Ma è sul partito che non ha ancora deciso. Se, cioè, domenica prossima, 18 dicembre, a Roma, chiederà all’Assemblea nazionale del Pd di aprire o meno la stagione congressuale, portando il Pd a congresso anticipato oppure se si limiterà a chiedere ‘primarie aperte’. «La decisione dipende da lui solo» – assicurano i suoi – e i problemi «non dipendono dallo Statuto».
LA MINORANZA dem è pronta a impugnare lo Statuto, a costo «di finire davanti al Tar». La questione, in realtà, è controversa. Secondo Nico Stumpo, responsabile Organizzazione sotto Bersani, non si può fare il congresso a marzo: «E come si fa? Quale sarebbe il percorso? Assemblea il 18, Direzione il 20 gennaio e presentazione delle liste collegate per il congresso a fine gennaio? E il regolamento congressuale quando si fa, a Natale?!» sbotta. Inoltre, per Stumpo, «Renzi si dovrebbe dimettere da segretario, se vuole presentarsi al congresso, e aprire la normale trafila congressuale di un congresso ordinario, altrimenti si va a scadenza naturale e il congresso si convoca 6 mesi prima».
Dall’altra parte c’è Salvatore Vassallo, estensore dello Statuto dem, che ieri sull’Unità ha scritto un – arzigogolato – articolo per spiegare, in buona sostanza, che segretario e Assemblea «sono sovrani» e che le dimissioni di Renzi sarebbero solo «dimissioni tecniche». Come spiega anche un altro costituzionalista dem, che pure ha contribuito a scrivere lo Statuto del Pd, Stefano Ceccanti, “il rapporto fiduciario segretario-assemblea è come quello presidente del Consiglio-Camere: puoi presentarti dimissionario, e riottenere la fiducia, oppure ti può essere negata, oppure ancora puoi dimetterti e andare al voto….”. Dalle parti di Matteo Orfini, invece, la pensano diversamente: «sarebbe Matteo (Orfini), in qualità di presidente, ad assumere i pieni poteri, in caso di dimissioni del segretario».
La questione, però, come sempre, è politica. Ieri, nel Transatlantico di palazzo Madama, il ministro al Welfare, Giulaino Poletti, ha fatto una gaffe, facendo arrabbiare assai i renziani («Quello è matto!») che però ha rivelato, i piani dell’ex premier: «Il referendum sul Jobs Act (3 milioni di firme raccolte dalla Cgil per reintrodurre l’art. 18, abolire i voucher e i contratti a termine, la Consulta esaminerà i quesiti l’11 gennaio, ndr) non si farà (a giugno, nel caso, sempre che i referendum passano il vaglio della Consulta) perché prima si vota».
Se domenica, in Assemblea, Renzi si presentasse dimissionario, si andrebbe dunque al voto anticipato, con in mezzo il congresso del Pd, sempre che la maggioranza dei membri dell’Assemblea (serve il 50,1% dei componenti: oltre 500 sugli oltre mille aventi diritto) deliberi che si va a congresso subito, con Renzi in sella o meno che sia, in questo caso.
Altrimenti Renzi potrebbe scegliere, come è tentato di fare, di promuovere solo primarie di coalizione «aperte», modello Prodi 2005 o, anche, modello Veltroni 2007. Primarie, dunque, solo ‘confermative’ per prendere – come ha detto altre volte – “2 milioni di voti”.
In questo caso, l’unica candidatura realmente alternativa a quella di Renzi sarebbe quella dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, appoggiato da Gianni Cuperlo e da altri pezzi della sinistra che, ormai, ha di fatto rotto con Sel e non parteciperà al percorso di nascita di Sinistra italiana (congresso fondativo a febbraio 2017): i senatori Stefano e Uras, che hanno già votato a favore del governo Gentiloni, rompendo con il gruppo di Sel al Senato, i sindaci di Cagliari, Massimo Zedda, e forse di Genova, Marco Doria, ma soprattutto, appunto, Pisapia. Ad andare in affanno sarebbe la sinistra interna dem che ha fin troppi candidati a segretario: il governatore toscano Rossi, il governatore pugliese Emiliano – sponsorizzato dall’ex premier Massimo D’Alema e il ticket Speranza-Letta, a ora mai nato.
Ieri sera, a Porta a Porta, il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, ha detto che «Renzi sarà il candidato del Pd al prossimo congresso» e che, appunto, «giugno è una data realistica per tornare alle urne», ma anche negato che Renzi voglia fondare un “Partito di Renzi” che, pure, nei sondaggi, viene già accreditato di almeno un buon 20% di voti.
IL ‘COMBINATO disposto’ delle parole di Guerini – che ieri confidava a un amico: «Abbiamo il 78% dei consensi in Assemblea e l’82% in Direzione…» – indica che le due strade davanti a Renzi (dimissioni per accelerare il percorso del congresso anticipato o restare in sella per andare al voto con primarie «aperte») sarebbero ancora, e pienamente, nella sua disponibilità. Solo che Renzi «ci sta pensando, non ha deciso» e, riconosce uno dei suoi, «ogni giorno ha la sua pena, ieri, per dire, ha cambiato idea tre volte…». A scompaginare i giochi di Renzi, però e per davvero, potrebbe essere il malumore che cova crescente dentro Area dem (Franceschini), tra i Giovani Turchi (Orlando) e tra i Popolari di Fioroni. Ecco, se domenica fossero loro a far mancare i voti, alla «mozione» Renzi (dimissioni e congresso anticipato), allora sì che sarebbero guai.
NB: Questo articolo è stato pubblicato su Quotidiano Nazionale il 15 dicembre 2016 pag 9


Il punto della situazione sul congresso del Pd ieri, 14 dicembre 2016, metà pomeriggio. 
Le notizie riportate sui giornali di oggi indicano che non solo la minoranza dem – pronta a impugnare lo Statuto del partito e, persino, pare a ricorrere al Tar (sic) in caso di ricorsi – ma anche lo stesso Renzi nutrirebbe forti dubbi sulla possibilità o legittimità di convocare il congresso del Pd già nel corso dell’Assemblea nazionale di domenica 18 dicembre. Lo scontro  verte su una diversa interpretazione dello Statuto. Per la minoranza è semplice: “o Renzi si dimette – spiega Nico Stumpo – si presenta dimissionario al congresso nazionale e questo si può svolgere in via anticipato, oppure, se non si vuole dimettere, il congresso non si può convocare prima del 6 giugno, quando scatta la convocazione ordinaria” (il congresso dem va convocato sei mesi prima della sua scadenza naturale, dicembre 2017). Sempre Stumpo mette tutti sull’attenti: “Sento parlare di Assemblea nazionale il 18, Direzione il 20 dicembre per eleggere la commissione congressuale e presentazione delle liste per il 20  gennaio! E il regolamento congressuale quando lo facciamo, sotto Natale?!”. Insomma, l’atteggiamento della minoranza è: “Se è così, se lo votano a maggioranza, il congresso, come hanno fatto con le riforme, così poi vediamo che fine fanno…”. Peraltro, la minoranza ha anche un altra arma: presentare una candidatura ‘di bandiera’ all’interno dell’Assemblea nazionale (Speranza?) per dilatare a dismisura il percorso congressuale (servirebbe, infatti, la convocazione di una nuova Assemblea per vagliare le candidature).
Dall’altra parte, i renziani – che comunque possono garantirsi il 50,1% dei membri dell’Assemblea nazionale (501 membri su 1000) solo con l’appoggio di altre aree interne (Area dem di Franceschini, Giovani Turchi di Orlando e Orfini, Sinistra nuova di Martina) – vorrebbero forzare le tappe e il percorso congressuale andando al congresso anticipato, senza che Renzi si debba presentare dimissionario. Salvatore Vassallo, che lo Statuto Pd lo ha scritto di suo pugno, ha spiegato ieri – sia pure in modo arzigogolato e barocco – sul giornale del partito, l’Unità – che “i gruppi dirigenti si possono rinnovare in due modi. 1) scioglimento ‘conflittuale’: dimissioni del segretario in caso di contrasto con la maggioranza dell’assemblea o di sfiducia dell’assemblea stessa verso il segretario. In questo caso, se il segretario si dimette, servono i 2/3 (maggioranza qualificata dei membri) per sostituirlo, se sfiduciato, è obbligatorio il ricorso a una nuova elezione del segretario; 2) scioglimento ‘non conflittuale’. Per proporre lo svolgimento di elezioni interne anticipate della sua carica il segretario può presentare le sue dimissioni ‘tecniche’ rendendo in questo modo l’Assemblea sovrana e libera di scegliere tra due alternative: accettare le dimissioni del segretario e decretare il suo stesso scioglimento, chiedendo al segretario di gestire il partito nella fase transitoria (fino, cioè, a nuove elezioni della carica di segretario), oppure eleggere un successore per il termine residuo del suo mandato”. Insomma, a norma di Statuto, parrebbe avere ragione Vassallo, ma il ragionamento è molto da Azzeccagarbugli e lo stesso Renzi parrebbe indeciso o dubbioso sul da farsi.  “Renzi sta riflettendo, in queste ore, sul da farsi, ma non ha ancora deciso”, dicono i suoi.
Nell’attesa ecco due articoli da me scritti, nei giorni scorsi, sul tema del congresso del Pd.

2) Primo pezzo pubblicato il 13 dicembre 2016, pag. 8.

“Resto segretario per il congresso”. Renzi accelera su tempi e regole. Primarie aperte per il leader. Sinistra dem in rivolta contesta, ma potrebbe lanciare Zingaretti.

AVERE, domenica prossima, il via libera, da parte dell’Assemblea nazionale del Pd – il massimo organo statutario del partito democratico, detto anche “l’Assemblea dei Mille” perché conta mille e più delegati e che, volendo, può eleggere il segretario (Guglielmo Epifani, per dire, fu eletto lì) – per la convocazione anticipata del congresso nazionale. In modo da eleggere, entro marzo, il segretario e, quindi, il candidato premier con un «bagno di popolo» da tenere domenica 26 febbraio o 5 marzo, le due date individuate da Renzi per la giornata campale, quella delle primarie aperte a tutti, iscritti al Pd e semplici elettori, sbaragliando gli avversari, ancora molto incerti sul da farsi, ma che, se non vogliono finire male come Cuperlo contro Renzi potrebbero cercare di convergere su un nome «terzo».
Non Roberto Speranza, dunque, il candidato ‘naturale’ della minoranza, che però non gradirebbe affatto verdi mettere da parte e neppure il governatore della Puglia, Emiliano, che è il ‘cavallo di razza’ su cui punta D’Alema, ma l’attuale governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che non a caso ieri ha fatto sentire la sua voce – molto critica – sul Pd. Obiettivo finale di Renzi – e non certo della minoranza – «elezioni politiche il prima possibile», a giugno. Eppure, stabilito che il congresso sarà vero e seguirà la trafila classica (congressi di circolo-congressi di federazione, cioè provinciali, entrambi riservati ai soli iscritti; selezione delle candidature, tre, per le primarie aperte a tutti) e che, dunque, non ci sarà alcun ‘congresso volante’, come volevano i renziani ortodossi (via la trafila dei congressi di circolo e federazione, solo liste collegate ai candidati e poi primarie aperte), la «gabola» c’è, anche se non si vede. Infatti, i congressi di circolo e federazione non eleggeranno i segretari dei medesimi organi, elezioni che saranno rinviate dopo le primarie, come pure l’elezione dei segretari regionali e dei congressi regionali che per Statuto si eleggono dopo.
IL DIAVOLO, come si sa, sta nei dettagli. Uno è quello citato, l’altro è che Renzi non si dimetterà da segretario, come invece chiede la minoranza, appellandosi allo Statuto: lo spiegano due costituzionalisti, Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti, che lo statuto del Pd l’hanno scritto. Vassallo scrive, via Twitter, che: «Non è necessario che Renzi lasci la segreteria per anticipare il congresso, se l’assemblea condivide il percorso indicato». Ceccanti ripete lo stesso concetto, richiamando anche un articolo dello Statuto (articolo 3).
È questa la road map che il premier ormai ex, ma ancora segretario dem in carica, illustra, ieri, in Direzione nazionale, dove non solo si è presentato, in maglioncino blu e camicia bianca senza giacca (si pensava non l’avrebbe fatto), ma ha anche parlato, a fine riunione.
La minoranza dem che fa capo all’area Speranza-Bersani (Sinistra riformista) preannuncia battaglia, ma le loro armi appaiono assai bagnate: non hanno candidati di grido e di peso, anzi sono divisi tra la candidatura del governatore toscano Rossi, quella possibile di Emiliano e quella che sembrava certa fino a ieri dello stesso Speranza, e, soprattutto, hanno poche armi in mano per impedire che si metta in moto la macchina congressuale.
Renzi, a fine dibattito, dunque parla – mentre Orfini, presidente dei lavori della Direzione, lo guarda esterrefatto perché gli aveva chiesto di non aprire, ora, il dibattito sul partito –: lo fa perché “si è molto indispettito”, dicono i suoi, proprio dopo l’intervento di Speranza. Il giovane delfino di Bersani – dopo aver presentato un documento sul governo Gentiloni che neppure viene votato, in Direzione, e che puntava a porre una “fiducia condizionata” – chiede di «cambiare rotta radicalmente o il Pd muore» e lancia la sfida a Renzi: «Dica con chiarezza se non c’è spazio nel Pd per chi ha votato No, senza nascondersi dietro agli insulti su Internet e alle manifestazioni davanti al Nazareno». Parole che suscitano un gran brusio e molti malumori in platea, da parte di renziani e non, e che, nonostante l’intervento ironico e pacato di Cuperlo («Non ho paura del voto, ho paura del risultato del voto…») che cerca di riportare i lavori a un clima più disteso, spingono Renzi a intervenire, appunto, in replica finale: «Io sono dell’idea – dice secco – che si dovrebbe rispettare lo Statuto e domenica l’Assemblea dovrebbe decidere se si fa il congresso».
Certo, se regge il “patto di sindacato” con le due macro-aree interne ‘a-renziane’ (Area dem di Franceschini e Giovani Turchi che però, ieri, sono rimasti seccati e silenti: giocano «a carte coperte, per ora», dicono preoccupati i renziani), problemi di numeri Renzi non li avrà. Un congresso, dice Renzi, che dovrà avere come obiettivo elezioni «imminenti» perché «nei prossimi mesi, lì andremo». Insomma, data la «piena fiducia» al governo Gentiloni, come ha sottolineato il vicesegretario dem, Lorenzo Guerini, nell’introduzione, «domenica prossima – spiega un big del Pd – l’Assemblea voterà un ordine del giorno in cui chiede alla Direzione di convocare il congresso (ma serve la maggioranza degli aventi diritto, per farlo, quindi 500 dirigenti del Pd su 1000, ndr), la Direzione nominerà la commissione per il regolamento e faremo congresso e primarie al massimo entro marzo».
UN PERCORSO che vede, appunto, la contrarietà netta della sinistra interna: non ha, ad oggi, i numeri per bloccare l’approvazione di un ordine del giorno in Assemblea, ma darà battaglia. «Il congresso si deve fare – dice Nico Stumpo – ma le regole devono essere rispettate. Renzi si dovrebbe dimettere. Altrimenti il congresso va convocato sei mesi prima della scadenza, il 6 giugno 2017…» (in teoria è previsto per dicembre 2017). La minoranza potrebbe – spiega Stumpo – presentare un proprio candidato anche in Assemblea per allungare i tempi. Primi tiri di fioretto, a colpi di regolamento, in attesa della battaglia vera e propria, quella congressuale, che si giocherà a colpi di mazza ferrata.


3) Secondo pezzo pubblicato lunedì 12 dicembre, pag. 9.

Congresso Pd, la sfida finale. “Matteo si gioca tutto alle primarie”. Due date (26 febbraio o 5 marzo), poi elezioni

MATTEO Renzi è tornato nella sua Pontassieve «a fare l’autista» a moglie e figli. Ha espresso dubbi persino sullla semplice sua partecipazione, oggi, alla Direzione nazionale del partito che, pur convocata in modo «permanente», mercoledì scorso ha visto solo la relazione del segretario, ma senza apertura di alcun vero dibattito, rimandato ad oggi. Renzi spiega ai suoi: «Non vorrei parlare in pubblico per un mese. Vorrei che si parlasse del governo di Gentiloni, dei problemi del Paese, non di me. Il confronto, anche duro, che ci dovrà essere, dentro il Pd, si trasformerà in una corrida, so che sarà così e mi sta bene, ma vorrei evitare che succeda oggi, almeno per rispetto a Paolo (Gentiloni, ndr.)». Alla fine, però, il segretario andrà alla Direzione e lo scontro vero si aprirà subito, prima ancora del fine settimana in cui si terrà l’Assemblea nazionale. Infatti, l’Assemblea del Pd, massimo organo del partito, è già stata convocata per il 18 dicembre e si terrà a Roma. Sarà lì che Renzi potrebbe annunciare le dimissioni anche dalla carica di segretario, come è pure tentato di fare. Anche perché, se non si dimettesse, come già eccepiscono in molti, il congresso andrebbe indetto non prima di sei mesi del suo svolgimento, cioè a… giugno 2017… I suoi lo frenano e stanno cercando un modo per indire lo stesso il congresso subito.
Renzi ha già individuato due date possibili, e molto ravvicinate tra loro: il 26 febbraio o il 5 marzo, per tenere il «giorno glorioso» che determina la fine del congresso, la celebrazione delle primarie, ovviamente «aperte» a iscritti e non del Pd purché firmino la «carta degli intenti» e versino un piccolo obolo (di solito si tratta di 2 o 5 euro e le primarie sono aperte anche al voto dei 16 enni, oltre che degli immigrati dotati di regolare permesso di soggiorno, fonte di infinite polemiche, nel recente passato, specie in primarie locali poi annullate o contestate come è successo, per ben due volte, a Napoli…). L’obiettivo del premier dimissionario resta sempre lo stesso, dal giorno (anzi, dalla notte), delle sue dimissioni: fare il congresso il prima possibile per andare a elezioni, una volta fatta la nuova legge elettorale dal Parlamento, il prima possibile (al massimo a giugno).
IN OGNI CASO – che vada oggi in Direzione, come sarà, e che si presenti, o meno, dimissionario all’Assemblea nazionale – resta il fatto che Renzi e i suoi stanno per lanciare l’ultima sfida, quella – davvero – della vita: congresso straordinario del Pd per ottenere, subito dopo, le elezioni. Per quanto riguarda il congresso, Renzi e i suoi hanno davanti a loro due strade, entrambe, però, assai difficili, se non perigliose. La prima, quella più hard, farebbe infuriare la minoranza al punto da dire «gioco falsato, regole farlocche, noi non giochiamo più», con conseguenze disastrose per il Pd: la scissione sarebbe più vicina.
La strada è quella del congresso «volante». Vuol dire saltare le istanze di base (congressi di circolo e federazione, riservati solo agli iscritti, e congressi regionali, che comunque, per Statuto, si devono tenere dopo il congresso nazionale) e fare solo le primarie nazionali per la candidatura a segretario e la premiership, due cariche coincidenti per Statuto. La selezione della classe dirigente starebbe solo nelle «liste» collegate al candidato segretario per comporre la nuova Assemblea nazionale la quale poi elegge la Direzione.
SAREBBE una forzatura che troverebbe non solo l’aperto dissenso della minoranza dem, l’area di Speranza e Bersani che, con Davide Zoggia, chiede apertamente a Renzi «di dimettersi, scindere le figure di segretario e candidato premier e fare un congresso vero». Anche Area dem (Franceschini) e i Giovani Turchi – ieri hanno parlato sia Matteo Orfini per assicurare che «nel momento in cui si apre il congresso, la gestione la fa un organismo terzo», sia Andrea Orlando che vuole «ripensare il Pd», ma non si candiderà contro Renzi – potrebbero nutrire dubbi e perplessità sull’iter accelerato che ha in mente il segretario, frenando l’impeto dei renziani che, sostanzialmente, puntano a primarie «confermative» (modello Prodi 2005 più che Bersani 2012, quando quest’ultimo vinse contro Renzi).
ECCO perché la seconda strada, più soft, oltre che classica, dovrebbe prevalere. Congresso ordinario con tutta la trafila: congressi – che i renziani chiamano «convenzioni», cioè con ridotti poteri di elezione dei segretari delle istanze medesime – dei circoli e delle federazione provinciali, congressi riservati ai soli iscritti, selezione delle candidature per il congresso nazionale con liste connesse dove le aree interne (o ‘correnti’) e, infine, elezione del segretario-candidato premier tra i diversi candidati con primarie «aperte», dove cioè votano tutti gli elettori e simpatizzanti del Pd che, versando un piccolo obolo e sottoscrivendo la ‘Carta degli Intenti’, possono votare anche se non sono  iscritti. In ogni caso, i tempi resterebbero gli stessi. Dalla data di indizione (18 dicembre) al giorno delle primarie (26 febbraio o 5 marzo) Renzi vuole chiudere la pratica congressuale in due mesi.
Al segretario non interessa nulla della trafila burocratica dei ‘congressini’ – che verrà gestita, come al solito, dall’uomo d’ordine, e ordinato, Lorenzo Guerini – ma la sfida finale: punta a una piena legittimazione popolare («almeno due milioni di voti»). «Vincere il congresso, ma vincerlo dopo, con un congresso ordinario semi-estivo», spiegano i suoi, sarebbe troppo tardi per tutto, soprattutto per preparare una campagna elettorale a Politiche anticipate (da fare a giugno, non oltre) che sarà ben più sanguinosa.
NB: Questi due articoli sono stati pubblicati lunedì 12 e martedì 13 dicembre sul Quotidiano Nazionale (http://www.quotidiano.net)