Renzi si fida dell’amico Paolo ma la rotta resta la stessa: elezioni a giugno, ma nel Pd tornano in campo i ‘frenatori’

30 Dicembre 2016 0 Di Ettore Maria Colombo
Quirinale - Paolo Gentiloni è il Presidente del Consiglio incaricato

Il nuovo premier, Paolo Gentiloni, al Quirinale

MENTRE Paolo Gentiloni teneva la sua conferenza stampa con il suo stile consueto, sobrio e persino mansueto, accomodante persino con quei giornalisti che l’ex premier mal sopportava (“Il circo Barnum dell’informazione” lo ha sempre apostrofato con malcelato disprezzo) Matteo Renzi – che alla  conferenza stampa di fine anno 2015 annunciò, solennemente, “Se perdo il referendum vado a casa” – stava affrontando una pista da sci «nera» (vuol dire «difficile», in gergo sciistico) sulle nevi della Val Gardena (Trentino). Non voleva togliere, Matteo, «all’amico Paolo» il proscenio rilasciando commenti, anche se poi se l’è rivista in tv, la conferenza stampa. Renzi «si fida» del suo successore, anche se i toni, lo stile, e pure i contenuti (nei confronti della Ue, per dire), di Gentiloni sono assai diversi dai suoi. «Non riusciranno a farci litigare, siamo amici da troppo tempo», sorride, rilassato, Renzi con i suoi, «anzi andremo a votare con Paolo consenziente, con il suo governo, ma so bene anche che i miei nemici, interni ed esterni, faranno ‘melina’, a partire dalla legge elettorale, per impedirci di andare a votare quando sarà il momento». E, cioè, a giugno, quando si potrebbe tenere, anche per far risparmiare lo Stato, l’election day, abbinando le politiche alle amministrative (al voto andranno oltre mille comuni). Prima di quella data, infatti, Renzi sa bene che sarà impossibile votare. «Una legge elettorale va fatta», ripetono i renziani, «il Pd propone il Mattarellum, ma se non si trova l’accordo presto si va a votare con quello che uscirà dalla sentenza della Consulta sull’Italicum». E cioè un Consultellum rivisitato, che non sarà il massimo, come il Mattarellum, «ma che ha il pregio – spiega un dem esperto di tecnicismi elettorali – «di avere soglie di sbarramento alte al Senato e pure un piccolo premio, seppur implicito».
Ma Renzi sa anche, fin troppo bene, che se si scavalla il mese di giugno 2017 e, di conseguenza, l’estate, «a ottobre nessuno sarà così matto da permetterci di andare a votare, a partire dal Quirinale che farà comunque le barricate, contro le elezioni anticipate in qualsiasi data», come sospirano i suoi fedelissimi. Inoltre, a ottobre il governo dovrà scrivere, varare e far votare una Legge di Stabilità che – continua un fedelissimo – «rischia di rivelarsi lacrime e sangue perché non c’è più il nostro governo, in Europa, a battere i pugni sul tavolo e perché dovremo affrontare una manovra economica di almeno 20 mld».
INSOMMA, «il tempo è adesso», direbbe Claudio Baglioni, o meglio, a partire da metà gennaio. Quando la Consulta avrà parlato, il 24 gennaio, e si capirà «se gli altri partiti fanno sul serio o fanno solo melina», come ripete l’ex premier ai suoi interlocutori. Lo hanno detto ed esplicitato, lo stesso concetto, peraltro, anche diversi renziani di complementoe  in diverse interviste uscite a raffica in questi ultimi due giorni: Orfini, Rosato e persino Luigi Zanda, oltre a, ovviamente, il vicesegretario Guerini. Hanno tutti chiarito due cose: «fatta la legge elettorale, questa legislatura è finita, si vada al voto».
Ecco perché i renziani guardano, invece, con gran sospetto e soppesano ogni virgola di altri due big dem per nulla renziani, ma neppure ‘in affari’ con la minoranza bersaniana: i ministri Dario Franceschini, capofila di Area dem, e Andrea Orlando, co-reggitore, con Orfini, dei Giovani Turchi. E proprio dalle parti degli uomini di Franceschini e Orlando (ma anche tra i cattorenziani, dove alta è la confusione sotto il cielo perché sia Richetti che lo stesso Delrio sono dati in gran fermento) si fanno ragionamenti ‘complessi’ che, guarda caso, riguardano proprio le sorti e la durata del governo Gentiloni. Governo amico di tutti, ovviamente, dentro il Pd, compresa la minoranza di Bersani che non vuole affatto urne anticipate, ma solo preparare la rincorsa (e la riscossa) al congresso del Pd di fine 2017.
«Gentiloni – è il succo di ragionamenti che ricordano da vicino gli ‘impedimenta’ che don Abbondio opponeva ai ‘promessi sposi’ Renzo e Lucia – potrebbe durare ben più di quanto vuole Matteo». E per ben cinque motivi, tutti molto ‘seri’: il caso MPS e la necessità di approntare un serio piano di salvataggio delle banche; la vicenda-caos dell’M5S a Roma; la legge elettorale e tutte le difficoltà del caso a trovare «la quadra» sulla medesima; la situazione internazionale che potrebbe evolvere verso scenari di guerra o di ritorno del terrorismo; il possibile, a oggi imprevisto, feeling che può nascere tra Gentiloni e il Paese.
Auspici, certo, semplici desiderata, ma che la dicono lunga su quanto i ‘frenatori’ per eccellenza (Franceschini, Orlando e non solo loro) vedano di buon occhio la prosecuzione dell’attività del governo Gentiloni fino a scadenza naturale di legislatura (febbraio 2018) oltre che il varo di una legge elettorale ultra-proporzionale. E allora sì che Renzi finirebbe schiacciato, direbbe sempre don Abbondio, «come un vaso di coccio tra vasi di ferro».


NB: Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2016 a pagina 2 del Quotidiano Nazionale