Renzi tra guerre interne al Pd e tentativo di fare la legge elettorale per andare al voto. ‘Tre articoli al prezzo di uno’…

Renzi tra guerre interne al Pd e tentativo di fare la legge elettorale per andare al voto. ‘Tre articoli al prezzo di uno’…

3 Febbraio 2017 0 Di Ettore Maria Colombo

1) Ok di Renzi al premio di coalizione. Il segretario costretto a accettare l’offerta dei big 

PREMIO alla coalizione in cambio di elezioni anticipate a giugno e, prima, primarie «vere, non una gazebata», come chiede Bersani, con tanto di data (il 25 marzo) e congresso del Pd a novembre. L’accordo verrebbe certificato con il timbro di tutte le aree del partito, minoranza compresa, il 13 febbraio, alla Direzione del Pd. Un ’volemose bene’ che chiuderebbe, come d’incanto, tutte le guerre interne al Pd. Quelle della minoranza sul piede di guerra di una scissione con D’Alema e, soprattutto, quelle dei big dem. Gli ormai noti ‘frenatori’ hanno nomi e volti: il ministro Franceschini, leader di Area dem e il ministro Orlando, ma anche i Popolari di Fioroni e pezzi di sinistra (Damiano).
ORLANDO, poi, è ormai in rotta di collisione con il suo ex sodale dentro i Giovani Turchi. Quel Matteo Orfini che non ha mai smesso (da solo, in quanto i renziani ieri erano muti come pesci) di vestire i panni del guastafeste, esternando la sua contrarietà al premio di coalizione (Orfini chiede il premio alla lista) e  «accrocchi», alleanze da Alfano a Pisapia.
Matteo Renzi, tornato a casa sua, a Pontassieve, si limita a dire che «basta, mi sono rotto. Io di legge elettorale non parlo più. Così ‘non ne caviamo le gambe’», espressione dialettale che sembra l’equivalente della ‘mucca nel corridoio’ di bersaniana memoria.
L’ex premier, domenica, parlerà, sì, ma «di contenuti» e, in particolare, «di Europa» che, in questi giorni, tiene l’Italia sotto scacco con la richiesta di una manovra correttiva che – dirà Renzi – «è ingiustificabile». Né mancherà di intervenire sull’ultima uscita della Merkel sulla Ue «a due velocità».
Renzi si sente «assediato» dai «finti amici» che ha nel Pd (i big, appunto), ma anche da tutti i «poteri forti» che si mettono di traverso sulla strada del voto. L’unica consolazione sono, allo stato, gli amati sondaggi. Uno, sfornato ieri, dice che batterebbe, alla primarie, qualsiasi sfidante: Emiliano 74 a 26, D’Alema 62 a 18, Orlando addirittura 82 a 18. Un trionfo, insomma. Per il resto, invece, sono solo dolori e cautela, se non veri sospetti.
E ne ha ben donde. Alcuni senatori della minoranza dem dicono già che «tutti i partiti, o molti, e tutto il Pd fingerà di aprire a una nuova legge elettorale con il premio di coalizione, ma poi, con i voti segreti, la affosseranno, specie al Senato. Con il fattivo contributo nostro e, anche, degli ex ‘101’ di Prodi».
Si vedrà. In teoria, appunto, l’accordo sulla nuova legge elettorale sembra cosa fatta. È arrivata, ieri, decisiva, a smuover le acque, l’intervista di Franceschini al Corsera. Intervista che ha incassato le aperture e, in alcuni casi, le lodi sperticate, di Alfano (Ncd), Forza Italia (Gelmini e De Girolamo) e, ovviamente, dei ‘piccoli’ partiti, ma pure della minoranza dem. L’accordo, in Parlamento, dovrebbe essere una specie di pro-forma.
Sulla carta, infatti, la proposta del leader di Area dem di spostare il premio (40% alla Camera) dalla prima lista, come è nell’Italicum, alla coalizione vincente e di estendere tale premio anche al Senato, ha numeri a dir poco schiaccianti. I grillini gridano all’«inciucio», la Lega si trincera dietro il mantra «al voto!». Tutti gli altri, FI compresa, si dicono favorevoli. «Sotto, però, temo che ci sia la fregatura», si lamenta un pasdaran renziano. Fregatura che potrebbe esserci con un doppio colpo: allungare la vita alla legislatura e costringere Renzi a capitolare dentro il Pd.

NB: L’articolo verrà pubblicato sabato 4 febbraio a pagina 11 del Quotidiano Nazionale. 


2) Elezioni, il bluff di Renzi: “Possibili primarie a marzo ed elezioni a giugno, oppure congresso a novembre e voto nel 2018”. Il leader del Pd finge di aprire ai frenatori. 

 

«CHE COSA vuole il mio partito? – chiede Renzi ai suoi luogotenenti – vuole andare al voto a giugno, come io credo sia giusto fare, il che vuol dire fare le primarie a marzo (c’è già la data, il 26 marzo, ndr)? O il Pd pensa sia meglio attendere la scadenza naturale della legislatura il che vuol dire tenere il congresso ordinario del partito a novembre? Il Pd deve decidere – continua Renzi nel suo ragionamento – cosa è più utile per lui e per il Paese. Io penso che la cosa migliore sia votare a giugno e fare le primarie, ma voglio condividere questa decisione con tutti. Non solo con voi, ma anche con i leader che nel Pd ci sono e di cui riconosco il ruolo». E qui Renzi si riferisce, ovviamente, a Franceschini e Orlando, che passano per suoi acerrimi nemici. Ed hanno talmente scarsa fiducia nell’apertura del loro segretario, Franceschini e Orlando, che uno, prima di profferire parola, dice ai suoi «voglio ascoltare cosa ha da dire con le mie orecchie, non mi fido». E l’altro (Orlando) confida a un amico in Transatlantico che «Matteo è molto abile nell’antica arte della mimesis». Un modo elegante e colto per dire: «è un baro».
NON A CASO, proprio il Renzi in versione ‘ecumenica’ e soft, usa una vera metafora calcistica coi suoi: «Dobbiamo usare lo scherma con cui Enzo Bearzot vinse i Mondiali di Spagna nel 1982, quando nessuno si aspettava potesse riuscirci. Dobbiamo giocare a fondocampo, di rimessa. Addormentiamo il gioco e poi partiamo in contropiede». Tradotto vuol dire: «fingiamo di proporre entrambe le alternative, ma per ottenere ciò che voglio il voto anticipato». «Non dovete far contento me» – sosterrà Renzi con gli altri appena parlerà loro in Direzione – il problema non è il mio destino personale. Ma, con una Europa che, a ottobre, ci chiederà una manovra ‘lacrime e sangue’ e i grillini che stanno per essere stritolati dal caso Raggi, è meglio votare subito». «Prendiamo – continuerà – una decisione che vada bene a tutti, ma sia che si facciano le primarie, sia che si vada a congresso, il giorno dopo nessuno potrà alzarsi, prender cappello e fare la scissione». «Perché – ribadirà a sera al Tg1 – per me va bene tutto: primarie, congresso, referendum degli iscritti, ma chi perde deve rispettare e sostenere chi vince, altrimenti non è più un partito, è l’anarchia».
Insomma, il messaggio alla minoranza dem come pure ai vari big è: «Restate dentro, aiutatemi a cambiare la legge elettorale, poi giocate la vostra partita, ma se perdete, dopo non si fugge via col pallone». Una frase che, appunto, spiega molto. «Il segretario è tonico – spiega uno dei suoi fedelissimi – non si sente né disperato né accerchiato, sta solo facendo finta di non volere, per forza, le urne anticipate, come fosse un capriccio».
E le vuole così tanto, le elezioni, che ha già cerchiato le date giuste sul calendario: scioglimento delle Camere per il 25 aprile e al voto, con mille comuni, l’11 giugno.
Inoltre, «Matteo – sorride uno dei suoi più fidati luogotenenti che ieri si è visto con lui e pochi altri colonnelli (Guerini, Orfini, Rosato), per fare il punto della situazione – ha deciso di fare un po’ di tattica».
Alla minoranza come agli altri big (Franceschini, Orlando) l’offerta è unica: restate nel Pd e i vostri posti in lista varranno i voti che avete. Alle primarie, candidando Emiliano, o al congresso, lanciando lui o Speranza o Orlando. Però, alla Direzione del 13 febbraio (Direzione che, forse, slitterà di qualche giorno, dipende dai lavori in corso sulla legge elettorale) o a una dopo, Renzi a tutti dirà: «scegliete quale sia la strada migliore, ma sapete anche cosa penso io: primarie a marzo ed elezioni a giugno».
Ora tocca ‘agli altri’, rispondere. E c’è già chi spera, tra i vari big, in un accordo con Berlusconi: «Se il Cav ci offre una legge elettorale vera e con il premio di coalizione, a Renzi lo mettiamo in minoranza».

NB: L’articolo è stato pubblicato a pagina 6 il 3 febbraio 2017 sul Quotidiano Nazionale. 


3) Ultima offerta di Renzi a Bersani: “primarie aperte ma niente scissione”. Bersani: “Se Matteo forza la mano, nascerà un nuovo Ulivo”.

«VA BENE, Lorenzo (Guerini, ndr). Va bene, Matteo (Orfini, ndr): mi avete convinto» – sospirMatteo Renzi nella war room convocata in via permanente al Nazareno. «Io temo che Pier Luigi (Bersani, ndr) non farà altro che alzare il prezzo, proprio come fa ora Grillo sulla legge elettorale. Lui e i suoi chiederanno, come l’M5S, di togliere i capilista bloccati e poi andranno avanti all’infinito, dicendo sempre ‘più uno’, pur di non farci votare: nessuno di loro vuole le urne». Ma se non si vota, allora il Pd dovrà davvero trovarsi un altro segretario», si sfoga l’ex premier, «perché qui non è in gioco il mio futuro, ma quello dell’Italia». «Comunque – prosegue – volete fare un tentativo? Fatelo. Offrite a Bersani le primarie, vediamo cosa ci dice».
A smuovere Renzi è l’intevista che Pier Luigi Bersani rilascia all’Huffington Post: «Se Renzi forza, rifiutando il congresso e qualsiasi altra forma di confronto e contendibilità di linea politica e leadership per andare al voto, è finito il Pd. E allora non nasce la ‘Cosa 3’, il partito di D’Alema, Bersani o altri, ma un soggetto ulivista, largo, plurale, democratico». Parole dure, che pesano come pietre. A occhi innocenti, è l’annuncio dell’ennesima spaccatura nel Pd e fatta dall’ex segretario che il popolo del Pd ancora ama. La verità è che Bersani non ha ancora detto, come ha già fatto D’Alema, «il dado è tratto». Cerca, ancora, una via d’uscita dentro il Pd. Ma che non sia, certo, quei «dieci capilista bloccati» che avrebbe offerto Renzi a Roberto Speranza, il pupillo di Bersani. Posti che i suoi colonnelli hanno definito ieri, in un pranzo drammatico, «un piatto di lenticchie». Ecco perché – hanno detto a Pier Luigi Zoggia, Leva, Stumpo e Speranza – «noi così non reggiamo più, fai e dì qualcosa, oppure ce ne andiamo con D’Alema. Anche senza di te».
Ed ecco che Bersani sembra sparare alto, ma poi centra il bersaglio e neppure nel tipico, criptico, bersanese, al netto delle sue metafore. Infatti, il passaggio cruciale non è quello in cui paventa la scissione dal Pd in senso ulivista – peraltro, tutti i veri ulivisti doc da Arturo Parisi a Rosy Bindi si taglierebbero un braccio piuttosto che finire con D’Alema – ma questo: «Per anticipare il congresso servono le dimissioni del segretario, ma evidentemente qualcuno (Renzi, ndr) non si vuole dimettere», sferza Bersani: «Chiamalo come vuoi, congresso, primarie, ma un luogo di confronto e contendibilità io lo chiedo e, per l’amor di Dio, non mi si parli di Statuto o di cavilli». Ecco, è questo il segnale che i due mediatori renziani del Pd (Orfini e Guerini, appunto) aspettavano. mentre da giorni si inseguivano le voci su un faccia a faccia tra Renzi e Bersani per un «chiarimento».
VOCI infondate: i due non si parlano, il gelo è una coltre, Renzi non vorrebbe trattare su nulla con lui e i suoi devono farlo al suo posto. Ma Bersani non è D’Alema – i due non si amano da anni – e non ha neppure tutta questa voglia di andarsene da «casa mia», come dice, anche se alcuni dei colonnelli bersaniani stanno per mollare gli ormeggi e andarsene con D’Alema: Danilo Leva sta costruendo la formazione dalemiana ‘Consenso’ in Molise, Davide Zoggia in Veneto, Gotor sa che non sarà ricandidato. Ma i due uomini che, nel Pd, contano pure agli occhi di Renzi e godono di raffinate abilità da mediatori (il vicesegretario Guerini e il presidente Orfini) sanno che «Bersani va tenuto dentro, lui è un simbolo». E, infatti, si attivano subito: il primo, Guerini, si fa intervistare dal Tg3, Orfini si fionda negli studi del talk show di Bianca Berlinguer per offrire il ramoscello di pace. «Se ci sarà un’accelerazione sul voto – dice Orfini – non faremo in tempo a fare il congresso («Si farà nei tempi stabiliti», tiene il punto Guerini, ndr), ma si può trovare il modo di fare le primarie prima dellle elezioni». Sembra fatta.
RENZI potrebbe annunciare, già nella Direzione del 13 febbraio, che la strada per cambiare la legge elettorale se non è un’autostrada, «è una strada aperta» e, dall’altro, le primarie aperte. Primarie aperte vuol dire allargare a tutto il «campo» progressista. I candidati saranno, probabilmente, tre: Giuliano Pisapia per l’area dei sindaci arancioni (Zedda, Doria, ma anche Merola), Michele Emiliano – che non vuol finire neppure lui con D’Alema – per l’area di Bersani e anche per altre. Il terzo, ovviamente, sarà il segretario, Matteo Renzi, a nome del Pd. Sempre che, ovviamente, ci siano elezioni politiche anticipate a giugno. Primarie, dunque, per un Pd che tornerebbe nuovamente «scalabile, contendibile» proprio come fu nella sfida tra Bersani e Renzi.


NB: L’articolo è stato pubblicato a pagina 8 del Quotidiano Nazionale il 2 febbraio 2017.