Mattarella e i partiti, scacco in tre mosse. Le scelte del Colle, i precedenti, gli scenari e le (magre) possibilità di formare subito un nuovo governo

Mattarella e i partiti, scacco in tre mosse. Le scelte del Colle, i precedenti, gli scenari e le (magre) possibilità di formare subito un nuovo governo

9 Marzo 2018 0 Di Ettore Maria Colombo

Pubblico, in forma estesa, due articoli scritti per il sito di @quotidiano.net e usciti nei giorni scorsi (5 e 7 marzo 2018) che parlano dei possibili scenari legati al Quirinale e al ruolo del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, in merito alla formazione di un nuovo governo e alle consultazioni al Colle che si apriranno a breve.

  1. Il ruolo di Mattarella e dei tre blocchi politici nella crisi appena aperta.Il Torrino

Ettore Maria Colombo – ROMA

A) Ci pensa Mattarella… Ma ne siamo sicuri? Beh, sì, o almeno lo si spera…
“Ci pensa Mattarella”. “Ci fidiamo di Mattarella”. “Guardiamo con tranquillità a quello che farà Mattarella”. Tutti i partiti – vincitori e, un po’ meno, sconfitti – alle elezioni del 4 marzo 2018, ma anche tutte le istituzioni italiane (BankItalia, Forze Armate, Consulta), europee (Bce, commissione Ue, governi dell’Eurozona) e internazionali (Ocse, FMI, Nato, paesi alleati d’oltreoceano, etc.) ripongono la loro massima fiducia, oltre che stima, nell’attuale Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ex deputato della Dc prima e del Ppi-Margherita-Pd dopo, estensore della legge elettorale maggioritaria con cui si è votato nelle elezioni politiche del 1994, 1996, 2001, detta appunto Mattarellum (la definizione fu coniata dal politologo Giovanni Sartori e, da allora, per estensione tutte le leggi elettorali godono dell’apporto del latinorum) giudice della Corte costituzionale, Mattarella è stato eletto al Quirinale nel 2015, grazie a una maggioranza di centrosinistra con l’esclusione di FI (astenuta) e Lega e M5S (contrari), e resterà in carica sette anni, fino al 2022.
In teoria, peraltro, sarebbero le nuove Camere oggi elette e che stanno per dare vita alla XVIII legislatura repubblicana, a trovarsi davanti il compito di eleggere il suo successore, anche se molti osservatori nutrono dubbi che esse riusciranno a dotare il Paese di governi stabili e, in ogni caso, in grado di concludere il loro mandato nei tempi previsti dalla Costituzione (5 anni, appunto). Ma davvero il Capo dello Stato ha tutti questi ‘super-poteri’ e potrà sbrigliare una matassa politica così ingarbugliata, quella uscita dal voto di domenica scorsa, che vede due grandi blocchi vincitori (i 5Stelle, una lista singola, e il centrodestra, una coalizione di liste) e un blocco assai sconfitto (Pd e alleati minori di centrosinistra)? Dipende da molti fattori, e vedremo quali, ma andiamo con ordine.
B) Per ora, il Colle tace (ma in campagna elettorale ha ricevuto delle email)…
Mattarella ha seguito lo spoglio e l’esito del voto in rigoroso silenzio, atteggiamento mantenuto nell’intera campagna elettorale. La sola eccezione, seppure non ha riguardato direttamente la persona del Capo dello Stato, è stata una ‘prima assoluta’ per i rigidi protocolli del Colle: la presentazione della “lista” di ministri e del “metodo” con cui erano stati scelti da parte del candidato premier dei 5Stelle, Luigi Di Maio. Il quale Di Maio si è presentato prima al Colle, il 23 febbraio scorso, ricevuto non da un usciere qualsiasi, ma dal segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti (segnale di rispetto per nulla formale né dovuto) e poi ha spedito al Quirinale una mail (“mai aperta”, dicono al Colle) con l’intera lista dei ministri in pectore del Movimento. Una “sgrammaticatura” istituzionale, quella di avallare, anche se in modo silente, il gesto totalmente “scorretto” di Di Maio (premier e ministri, in base alla Costituzione, li nomina, appunto, il Capo dello Stato), ma di cui, a urne chiuse, si comprende forse il senso. Insomma, forse Mattarella aveva dei sondaggi riservati e già dicevano tutto…
C) Festa della donna al Colle, il monito ai partiti.
Bisogna avere tutti “senso di responsabilità” e pensare “all’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini”. Tutti attendevano, con il fiato sospeso, che il Capo dello Stato dicesse qualcosa, per quanto super partes e indirizzato erga omnes potesse essere, ovviamente, il suo messaggio, in una fase ancora iniziale, forse persino prematura, cioè ancora lontana dalle consultazioni di rito al Colle come questa. E il Capo dello Stato non ha deluso le aspettative, anzi: ha parlato eccome. Lo ha fatto l’8 marzo, in occasione della celebrazione della Festa della Donna al Quirinale. Alla presenza, tra le tante personalità, anche se una presenza che almeno ieri è stata discreta, del vicepresidente della Camera uscente, Luigi Di Maio, premier in pectore almeno per uno dei due schieramenti usciti vincitori dalle urne, i 5Stelle, mentre l’altro, Matteo Salvini, aveva altro da fare.
A leggere in filigrana il primo discorso post-elettorale di Sergio Mattarella (“Abbiamo ancora, e questo riguarda tutti, e avremo sempre bisogno di questa attitudine: del senso di responsabilità di saper collocare al centro l’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini”, la citazione testuale), si coglie una preoccupazione di fondo: senza il “senso di responsabilità” che collochi “al centro l’interesse generale del Paese e dei suoi cittadini” non se ne esce, dati i numeri delle elezioni.
D) I tre blocchi politici e il ‘dilemma del prigioniero’.
Il gioco ‘a somma zero’, infatti, che preoccupa Mattarella come la Ue, i mercati esteri come le istituzioni italiane e internazionali è, come si sa, un Parlamento uscito con tre blocchi contrapposti ognuno dei quali (tranne il terzo, quello di centrosinistra, o almeno così pare) vorrebbe andare al governo, ma senza i voti (o con i voti ‘regalati’) dell’altro, annullando a vicenda e quindi rischiando di sprecare la massa di voti conseguita. Infatti, né i 5Stelle (nettamente il primo partito) né la Lega (nettamente il primo partito dentro la prima coalizione) hanno i voti necessari anche solo per avvicinarsi alla maggioranza necessaria per governare (316 deputati, 161 senatori).
Due blocchi sono guidati dai due vincitori netti delle elezioni del 4 marzo – Di Maio i 5Stelle, Salvini la Lega e, ormai, anche per il centrodestra – e uno è il blocco sconfitto, quello del centrosinistra. Il cui perno è, ovviamente, e resta, il Pd da lunedì scorso non più guidato da Renzi, ma dal suo vice, il ministro Maurizio Martina, che a far data da quel giorno ne diventerà anche per forma e non solo per sostanza politica, il ‘reggente’, anche se dovrà essere un’Assemblea nazionale che dovrebbe tenersi il prossimo 15 aprile a consacrarlo, definitivamente, nuovo segretario del Pd. Come lo divenne Franceschini dopo le dimissioni di Veltroni nel 2009 ed Epifani, dopo le dimissioni di Bersani, nel 2013. Poi, forse, il Pd accenderà la strada delle primarie ma il tempo passerà e al Paese serve un governo che non può aspettare che Renzi e i suoi avversari interni regolino i conti al congresso (per quanto il Pd sia l’unico partito dotato di democrazia interna). Il Pd dovrà, dunque, in questa fase transeunte, affidarsi alla reggenza di Martina e del ‘caminetto’ dei big, dopo le dimissioni di Renzi, ma comunque, pur se in veste di netta minoranza nel Paese e nelle Camere, rappresenta, se confermerà la linea dell’opposizione, un ‘blocco’ sufficiente a impedire la nascita di qualsiasi governo. E proprio questo blocco – che sarebbe decisivo per far nascere qualsivoglia esecutivo di natura ‘politica’ nel senso classico (un governo a guida 5Stelle, un governo a guida Lega, ma anche un governo di unità nazionale, o tecnico, o di scopo, o di altra natura) – è in preda a un classico della ‘teoria dei giochi’, il ‘dilemma del prigioniero’. Detta in soldoni, due prigionieri, posti davanti alla scelta di pentirsi o denunciare il compagno, perdono sempre perché, o collabori o non collabori, la pena che subirai è sempre alta. Traduzione politica: sia che il Pd appoggi un governo 5Stelle sia che ne appoggi uno targato centrodestra, continuerebbe a perdere voti e credibilità e, probabilmente, anche se appoggiasse un governo di tutti.
Ecco perché, anche se alle consultazioni formali al Quirinale per formare un nuovo governo mancano ancora 20 giorni e forse più (prima bisogna eleggere i presidenti delle Camere, dal 23 marzo), la possibilità che non nasca un governo politico propriamente detto è molto alta come pure che, per assurdo, non nasca alcun governo.
3. Tre strade davanti a Mattarella, tutte impervie.
Esclusa, quindi, sulla base di questi presupposti, almeno che non cambino in modo clamoroso le carte in tavola, la possibilità che nasca un governo politico – non importa se targato M5S-Pd, centrodestra-Pd (entrambe le soluzioni sono ritenute, ad oggi, improbabili) e, a maggior ragione, un governo M5S-centrodestra (né Di Maio né Salvini e Berlusconi ne vogliono proprio sapere), a Mattarella non resterebbero che due strade: rimandare il Paese al voto con la stessa legge elettorale attuale, il Rosatellum (ipotesi che il Capo dello Stato considera la più sciagurata), nel bel mezzo di una crisi politica e, probabilmente, economica e finanziaria dagli sviluppi imprevedibili, o ‘inventarsi’ una soluzione creativa. Quali sono i poteri del Capo dello Stato, da questo punto di vista?
Il Capo dello Stato “nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, i ministri” dice, secco e stringato, l’art. 92 della Costituzione. Tutto il resto è affidato alla ‘prassi’… costituzionale. Un gioco di parole che dice molto: è una prassi e ‘non ‘ è scritta in Costituzione! Bisogna, dunque, rifarsi al passato – i famosi ‘precedenti’ – e anche al buon senso (e al galateo) istituzionale, oltre che ai profili dei diversi Presidenti.
Certo è che i poteri del Quirinale, durante una crisi di governo sono – o, meglio, diventano – come usano dire i costituzionalisti, ‘a fisarmonica’: più cresce l’instabilità e la paralisi politica in Parlamento e più si allargano. Ma come userà questi poteri Sergio Mattarella? In passato, non solo Giorgio Napolitano, ma anche altri predecessori di Mattarella al Colle hanno fatto largo uso di soluzioni ‘creative’, anche se, nella Prima Repubblica, erano più i partiti che gli inquilini del Colle a trovarle. E oggi? La pagina è ancora bianca, e tutta da scrivere, ma si possono immaginare almeno tre tipi di governo ‘possibili’.
A) Il gioco delle tre carte: governo tecnico, di scopo o del Presidente?
1) Il governo ‘tecnico’. La formula è impropria perché tutti i governi sono politici, devono cioè trovarsi, quando arrivano davanti alle Camere, una maggioranza in Parlamento grazie alla quale poter governare. Ma di profili di governi ‘tecnici’ – nel senso che sia il premier che i ministri erano scelti tra esponenti non politici o comunque non immediatamente riconducibili ai partiti politici presenti in Parlamento o, al massimo, di area – l’Italia ne ha conosciuti almeno tre ed essi sono entrati in carica in periodi altamente drammatici della nostra storia recente.

  1. Il primo è stato il governo Amato (1991-’92) che, dicevano le opposizioni di allora, “mise le mani in tasca agli italiani” (il prelievo forzoso sui conti correnti) per evitare che una drammatica svalutazione della lira portasse il Paese nel baratro dell’insolvibilità davanti agli investitori esteri e ai detentori del debito pubblico (la Ue era ancora la Cee e l’Euro non esisteva), ma che affrontò anche il ciclone di Tangentopoli e Mani Pulite. A nominarlo, in un Parlamento terremotato dalle inchieste ma che vedeva ancora, in teoria, una maggioranza di pentapartito (di allora: Dc-Psi-Psdi-Pli-Pri), fu l’allora neo-eletto Oscar Luigi Scalfaro (Dc).
  2. Il secondo fu il governo Ciampi (1993-’94) che accompagnò il Paese al voto e che, pur dovendo nascere come governo ‘politico’, divenne a sua volta un governo tecnico. In pratica, in entrambi i casi, premier e ministri li scelse tutti Scalfaro. Il risultato, alle elezioni del 1994 che ne seguirono, fu la nascita e l’affermazione della vittoria di Silvio Berlusconi che polverizzò gli avversari, i quali sia centristi – Ppi e Segni – che di sinistra – Pds e alleati – avevano appoggiato i governi Amato e Ciampi, senza trarne elettoralmente che danni e sconfitte.
  3. Il terzo governo ‘tecnico’ ha una storia ben più nota e recente: si tratta del governo Monti (2012-2013) che, dopo la caduta del IV governo Berlusconi (2011) e la crisi valutaria e finanziaria che stava affrontando l’Italia, oltre che l’Europa, a livello planetario (la famosa crisi dei mutui subprime e, in Italia, dello spread), venne nominato dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Pd). Napolitano, dopo aver nominato Monti senatore a vita, ‘preparò’ a lungo la nascita di quel governo, mentre il centrodestra implodeva, e poi costrinse i leader riluttanti dei due schieramenti di allora (Berlusconi e Bersani) ad appoggiarlo in nome dei “supremi interessi del Paese”. Anche in quel caso, gli italiani se lo ricordano bene, quel governo, perché approvò la vituperata legge Fornero sulle pensioni, il blocco degli stipendi e dei contratti, l’aumento di Iva e accise e molti altri provvedimenti da ‘lacrime e sangue’. Mal gliene incolse ai partiti che lo sostennero: alle elezioni del 2013 il fenomeno M5S esplose. Sarebbe possibile oggi un governo ‘tecnico’ così inteso? Noi crediamo di no. Per un motivo banale: Mattarella ‘non è il tipo’ per farlo. Parlamentarista convinto (il testo di diritto pubblico e costituzionale scritto nel dopoguerra da Costantino Mortati è la sua Bibbia), rigidamente rispettoso delle prerogative sue come degli altri organi dello Stato, Mattarella non crediamo che si metterà a ‘giocare’ a governi da plasmare a sua immagine e somiglianza. Inoltre, la sua solida cultura di cattolico-democratico, gli vieta, per storia e profilo, soluzioni del genere. In ogni caso, un nome di premier per un governo siffatto potrebbe essere il presidente dell’Authority anti-corruzione, Raffaele Cantone o, se le cose si dovessero mettere male, il presidente della Bce Mario Draghi.

2) Il governo ‘del Presidente’ o di ‘salvezza nazionale’. Anche qui la formula è impropria. Un governo ‘del Presidente’ (della Repubblica) in senso stretto se fosse formalmente tale costituirebbe… un golpe… Il presidente della Repubblica Antonio Segni (Dc) ne ipotizzò uno nel 1964, a guida del generale De Lorenzo: Moro e Nenni gli impedirono anche solo l’idea e a Segni venne un ictus…
Ma diamo la formula per buona e usiamo, per accortezza e correttezza, non la prima formula, ma la seconda formula (governo ‘di salvezza’ o ‘di emergenza’ nazionale). Con nomi (dal premier ai ministri) scelti, sostanzialmente – ma anche, di fatto, formalmente – dal Capo dello Stato, e non dai partiti politici, un governo siffatto avrebbe però compiti eminentemente politici. In sostanza, non si tratterebbe solo di ‘traghettare’ il Paese a nuove elezioni, anche se verosimilmente queste si terrebbero non prima della primavera del 2019 (se non anche dopo…), e di varare la manovra di bilancio per il 2018, ma anche di scrivere una nuova legge elettorale e fare altre cose. Ad esempio, provvedimenti urgenti e necessari per l’economia, sul fronte dell’immigrazione, del sociale e presenziando a pieno titolo nei vertici della Ue (e della Nato) che sono attesi – da qui al 2019 – a importanti decisioni (Brexit, MO, etc.). Insomma, prima di andare a nuove elezioni passerebbero un anno, forse due, ma un governo simile potrebbe anche trovare cammin facendo la capacità e la forza di durare anche di più. Esempi e paragoni di governi simili? Praticamente nessuno, tranne due, forse. Il primo è il governo ‘di Cln’ (1943-’47) o di ‘liberazione nazionale’ che vide tutti i partiti antifascisti, anche molto lontani tra di loro (Dc-Pli-Pd’Az-Psiup-Pci) collaborare per risollevare il Paese dopo cinque anni di guerra mondiale, scrivere la Costituzione e riavviare il Paese. Un governo che, allora, fu davvero di ‘emergenza nazionale’ e che, paradossalmente, funzionò anche bene. Capo dello Stato, prima provvisorio, poi effettivo, era Luigi De Nicola (Pli), ma la sua regia fu minimale: decisero tutto e sempre – premier (Parri e poi tre volte De Gasperi) e ministri – i partiti e solo quando scese la ‘cortina di ferro’ e si ruppe la positiva collaborazione delle forze antifasciste che avevano fatto la Resistenza e scritto la Costituzione, si ruppe anche la formula dei governi di Cnl cui seguirono governi a guida centrista. Il secondo esempio risale al 1976-’79, quando sotto il presidente della Repubblica Giovanni Leone (Dc), nacquero tre governi di ‘larghissime intese’, quelli detti – allora – di ‘solidarietà nazionale’ o, dal punto di vista tecnico-parlamentare, della ‘non sfiducia’. C’era, allora, da fronteggiare il terrorismo rosso, ma anche lo stragismo nero, la crisi economica, ma anche quella sociale, e Dc e Pci erano usciti entrambi vincitori, ma entrambi ‘relativi’, dalle elezioni politiche del 1976. Non potendo il Pci – ancora legato all’Urss e al blocco socialista internazionale – andare al governo da solo, l’elaborazione di due famose strategie politiche man mano convergenti (il ‘compromesso storico’ di Enrico Berlinguer, segretario del Pci, e ‘le convergenze parallele’ di Aldo Moro, presidente della Dc) portarono alla nascita di quei tre governi a guida Andreotti (1976-’79) che comprendevano anche Pri, Psi e Psdi, mentre il Pli andò all’opposizione con Msi, radicali, Dp e pochissimi altri (i Radicali coniarono allora il termine ‘partitocrazia’…). Anche in quel caso, Leone fu poco più che uno spettatore di un governo fatto tutto dai partiti che ebbe, però, anche un altra caratteristica: data la forte centralità del Parlamento, all’epoco, il governo era un monocolore Dc, tutti gli altri partiti si astenevano, ma al Pci andarono, per la prima volta, la presidenza della Camera e di molte commissioni chiave. Insomma, per la prima volta il Pci partecipava, anche se con la formula delle astensioni o, appunto, della ‘non sfiducia’, a un governo dalle elezioni del 1948 in poi. Una novità che finì dopo l’assassinio di Moro e il cambio del quadro politico che assecondò lo stesso Andreotti e che fecero concludere la legislatura a governi centristi guidati, allora, da Francesco Cossiga (1979-’82) con il ritorno della collaborazione stretta tra Dc, partiti laici minori e Psi.
Ecco, un governo siffatto è esattamente quello che vuole e a cui punta Mattarella: un governo ‘di larghissime intese’, meglio sarebbe dire ‘di responsabilità nazionale’ che veda il coinvolgimento di tutti e tre blocchi presenti alle elezioni. Scommettiamo un caffè con i nostri 25 lettori che Mattarella farà di tutto per arrivare a questa soluzione, ma un nome del premier davvero qui non ci viene in mente…
3) Il governo ‘di scopo’ o governo ‘a termine’. Definizioni, a loro volta, istituzionalmente assai poco corrette. Sempre per Costituzione, un governo non ha e non può avere un termine: va avanti fin quando ha una maggioranza che, in Parlamento, gli vota la fiducia. In ogni caso, una volta preso atto che questo Parlamento non riesce a trovare una maggioranza politica e che nessun governo ‘del Presidente’ o ‘tecnico’ che affronti i problemi del Paese e lasci decantare la situazione è possibile, Mattarella dovrebbe far buon viso a cattivo gioco e dare vita a quella che, per lui, è l’ultima carta, la più disperata e che non vorrebbe mai giocare. La nascita di un governo dalla durata molto breve, e in ogni caso assai incerta, che si limiti a traghettare il Paese a giugno o, al massimo, ottobre e che – senza neppure una nuova legge elettorale, tranne che in caso di vero rapidissimo miracolo – riporti il Paese al voto. Non sarebbe, in questo caso, importante il nome del premier, né tantomeno quello dei ministri e nemmeno quali forze politiche (realisticamente tutte) lo dovessero appoggiare e in quali modalità (astensione, sostegno pieno o volta per volta) perché gli scopi e la durate di un esecutivo simile sarebbero così limitati da non doversi troppo lambiccare nelle formule. Per Mattarella e per le forze politiche, oltre che per l’Italia, sarebbe una grave sconfitta, uno smacco bruciante e una, ulteriore, perdita di credibilità davanti ai cittadini e alla Ue. Peraltro, in caso di drammatica emergenza e di un lasso di operatività ristretto a pochi mesi, potrebbe benissimo restare in carica, sia pure dimissionario, o con una nuova fiducia, ma a quel punto solo ‘di scopo’, appunto, il governo Gentiloni, sempre che, tuttavia, tutti o quasi i partiti siano d’accordo. Precedenti di governi simili ce ne sono a iosa, ma bisogna risalire alla Prima Repubblica. Diversi governi, spesso a guida di figure di leader minori (Goria) o caduti in disgrazia (Fanfani, Andreotti), per lo più della Dc, furono presidenti di governi che, però, a quei tempi, si definivano‘balneari’ o ‘ponte’ perché servivano solo a chiudere una legislatura. Il presidente del nuovo Senato sarebbe un nome ‘papabile’, anche se bisogna vedere prima chi mai verrà eletto e da chi. Ma prima di giocare questa carta Mattarella le proverà tutte: questo sarebbe per lui di certo lo scenario peggiore.
B) Le formule di rito che definiscono la natura dei governi prima descritti.
Al di là di definizioni – come quelle citate in precedenza – più politiche che istituzionali e costituzionali, esiste invece una casistica ben precisa dei tipi di ‘mandati’ che il Capo dello Stato può conferire a un presidente del Consiglio incaricato. Anche qui vale non la lettera della Costituzionale, ma la prassi di 70 anni di storia repubblicana e gli usi e consuetudini che ha determinato. Vediamo le tre scelte che il Colle potrebbe seguire.

  1. Un incarico pieno. Mattarella incarica, formalmente, un leader di partito o una personalità indicata da quel partito di formare un nuovo governo. Il premier incaricato accoglie l’incarico – come dice la formula di rito – “con riserva”, svolge a quel punto le sue, di consultazioni, e con tutti i gruppi che siedono in Parlamento. Poi torna al Colle e riferisce: chiede di sciogliere la riserva o rinuncia per l’impossibilità di trovare una maggioranza. Nel primo caso Mattarella da il suo via libera e il premier incaricato passa alla formazione del governo, il governo giura e si presenta davanti alle Camere per la fiducia. Se la ottiene, il governo parte. Se viene bocciato, si torna da capo. Ma se il premier incaricato rinunzia all’incarico o Mattarella ritiene non abbia, comunque, i numeri sufficienti, si riparte da zero. Dubitiamo fortemente che Mattarella darà un incarico di governo ‘pieno’ sia a Salvini (centrodestra) che a Di Maio (M5S), pensiamo si limiterà a un pre-incarico.
  2. Il pre-incarico. Mattarella, davanti a un quadro politico di forte instabilità e a numeri che nessuno riesce a garantire, si limita a formalizzare un pre-incarico. Di solito viene conferito a personalità istituzionali (i presidenti delle Camere, specie quello del Senato) e a fini puramente ‘esplorativi’, ma nel 2013 Napolitano lo concesse a Bersani. Dopo il giro di consultazioni del presidente ‘pre-incaricato’, questi torna al Colle e riferisce. Mattarella decide se sciogliere la sua, di riserva, e trasformare il pre-incarico in un incarico pieno, altrimenti ferma tutto e ricomincia il giro. Intanto, il premier pre-incaricato se ne torna a caso o, come successe sempre a Bersani nel 2013, finisce per sempre ‘congelato’…. Pensiamo che Mattarella sceglierà questa strada per lasciarsi la possibilità di veder fallire i tentativi ‘politici’ di formare un nuovo governo e che si riserverà un incarico pieno solo alla fine, quando cercherà di far nascere un governo di tutti, di ‘responsabilità nazionale.
  3. L’incarico con riserva. La differenza con il pre-incarico è sottile, ma c’è. Il presidente della Repubblica conferisce l’incarico, ma stavolta è il premier, appunto, a tenersi in tasca ‘la riserva’ perché non è sicuro di poterla sciogliere, alla fine delle sue di consultazioni. Come si vede, si tratta semplicemente di una subordinata di 1.


C) Tutto quello che succederà prima: l’elezione dei presidenti delle due Camere (e non solo).
Gli eletti, cioè i nuovi parlamentari (630 deputati e 315 senatori), appena verranno proclamati dalle corti circoscrizionali di appello, sulla base dei risultati ufficiali delle elezioni forniti dal Viminale (mancano ancora, anche se ha dell’incredibile, un pugno di sezioni), possono “registrarsi” nella loro Camera di appartenenza a partire dall’8-9 marzo. Il 23 marzo, un venerdì, si apre “la rumba”. Infatti, le nuove Camere sono già state convocate – lo ha deciso sempre lo stesso Capo dello Stato all’atto dello scioglimento ufficiale delle Camere che era stato decretato il 27 dicembre 2017 – per i loro primi atti. Atti non di scarso rilievo. Il primo, appunto, è nominare non i due presidenti delle Camere ma idue presidenti della Giunta per le Elezioni (che, solo al Senato, si somma con quella del giudizio sulle Immunità e le Decadenze dei senatori) che devono proclamare, in modo ufficiale, i rispettivi eletti. Per prassi, di solito, questa carica viene affidata a un esponente dell’opposizione. Già, ma chi rappresenterà, nelle nuove Camere, l’opposizione? Per ora, proprio non si sa. Qualche nume in più arriverà, invece, dall’elezione dei due nuovi presidenti di Camera e Senato il cui iter per l’elezione, realisticamente, inizierà non prima del 24 marzo e non il 23 stesso. Ma anche qui c’è una differenza non da poco. Infatti, al Senato, dopo le prime tre votazioni, per le quali serve la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea (161 voti su 312 membri, contando anche i sei senatori a vita, oltre ai 315 senatori eletti), si passa, dalla IV votazione in poi, al ballottaggio tra i due candidati più votati e, in caso di parità, vince il senatore più anziano (nel 1994 così Carlo Scognamiglio vinse su Spadolini). Morale: in tre giorni, il presidente del Senato ‘deve’ venire fuori. Sarà della Lega? O di FI? Non si sa.
Non sono così facili, invece, le cose nella Camera dei Deputati: dopo la maggioranza dei due terzi richiesta nei primi tre scrutini, dal IV scrutinio in poi serve la maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea (316 su 630 deputati), ma se non si trova si va avanti a votare “a oltranza”, così dice il Regolamento. Insomma, entro domenica 25 marzo avremo sicuramente il nuovo presidente del Senato (capo dello Stato supplente, per Costituzione) ma non è affatto detto che avremo il nuovo presidente della Camera: ci potrebbero volere ancora molti giorni. In ogni caso, entro il 27 marzo, devono essere costituiti i gruppi parlamentari e nominati presidenti, altro tassello importante in vista delle consultazioni al Quirinale. Ma chi saranno i nuovi presidenti di Camera e Senato e che indicazioni politiche daranno? Dipenderà, appunto, dalle maggioranze che si formeranno e, soprattutto, deputati e senatori dovranno rispondere alle prime, politicamente decisive, domande: 1) chi è “la maggioranza” (M5S+Lega? M5S+Pd? centrodestra+M5S?, centrodestra+Pd?); 2) la presunta maggioranza si spartirà le presidenze delle due Camere? (esempio: una Camera, quella Bassa, ai 5Stelle, e una,quella alta, alla Lega, sulla base che sono i due partiti più votati alle elezioni?) o una delle due Camere verrà gentilmente concessa al terzo blocco (Pd+alleati), per quanto sia il più piccolo e il vero sconfitto, ma come gesto di “cortesia istituzionale” come si faceva una volta? Oggettivamente, allo stato, non si sa…
In ogni caso, solo con l’elezione dei due Presidenti (e, ma più avanti, delle commissioni, permanenti e bicamerali) delle due Camere si potrà passare alla fase clou per la formazione del possibile nuovo governo, quella delle consultazioni formali e di rito al Colle.
D) Il timing delle prime, “vere”, consultazioni.
Se quelli citati appena sopra sono i tempi per la formazione delle nuove Camere, realisticamente è impossibile pensare che, prima del 27 marzo (e già staremmo parlando di un mezzo miracolo…), i due rami del Parlamento siano nel pieno esercizio dei loro poteri. A quel punto, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, salirà al Colle per rassegnare le proprie dimissioni nelle mani del Capo dello Stato e resterà in carica e, con lui, tutti i ministri solo “per il disbrigo degli affari correnti” come recita la formula di rito (fino a quel giorno, invece, sarà in carica “nei suoi pieni poteri”). Diciamo che, dal 27 marzo, queste procedure saranno state espletate. Mattarella potrebbe, con una piccola forzatura sulla tempistica, ma con il fine di evitare il primo scoglio, figlio del calendario, accelerare.
Eh sì ci si mette pure il calendario a complicare la vita alla Politica italiana: dal 30 al 31, venerdì e sabato, fino a domenica I aprile, cade la Pasqua cristiana e in quei giorni il Paese si ferma. Proprio per evitare un inizio al rallentatore non voluto, Mattarella inizierà il primo giro di consultazioni al Quirinale il 28/29 marzo, sempre che tutto abbia funzionato a dovere fino a quel giorno, ma se per eleggere il presidente della Camera ci si è messo – come è probabile – qualche giorno in più, si arriverà a dopo Pasqua e le consultazioni inizieranno il 2 aprile.
Sul Colle, saliranno prima i presidenti delle Camere, poi i gruppi parlamentari congiunti di ogni partito di Camera e Senato, secondo l’ordine di grandezza, dal più piccolo fino al più grande. Prima domanda: il centrodestra si presenterà unito come somma di Lega+FI+FdI o diviso? Unito, probabilmente, ma senza aver formato gruppi unici. Seconda: i leader dei tre partiti ci saranno tutti e tre (Berlusconi, Salvini e Meloni)? Sicuramente sì. Terza: chi salirà al Colle insieme a Luigi Di Maio, per i 5Stelle? Insomma, Beppe Grillo ci sarà? Probabilmente no. Quarta: cchi rappresenterà la delegazione del Pd, oltre ai due nuovi capigruppo, dato che il segretario del partito, Matteo Renzi si è dimesso? Probabilmente il presidente del partito, Orfini, e il neo-eletto vicesegretario Maurizio Martina.
Quinta e ultima domanda: basterà il primo giro di consultazioni per formare nella testa del Capo dello Stato un’ipotesi di mandato – e di che tipo sarà? Pieno? Un pre-incarico? Esplorativo? – a una personalità politica rappresentante uno dei blocchi in campo (cioè uno dei diversi leader, può essere anche un non parlamentare ma non potrebbe essere comunque Berlusconi in quanto condannato), presente o meno in Parlamento, o a uno dei presidenti dei due rami del Parlamento, o a una figura terza, di caratura istituzionale? Torniamo alle domande di cui sopra e, come si vede, risposte e certezze non ve ne sono. Siamo ancora agli inizi e, in ogni caso, diversi giorni già se ne saranno andati.. Diciamo che si parte il 2/3 aprile. Se tutto va bene per il nuovo governo bisognerà aspettare la fine del mese, ma come diceva il poeta Eliot “è aprile il più crudele dei mesi”…