Salvini e Di Maio. segnali di fumo su presidenze delle Camere e governo. Mattarella per ora tace, ma farà delle consultazioni ‘al ralenty’

15 Marzo 2018 0 Di Ettore Maria Colombo

Pubblico qui due articoli usciti negli ultimi due giorni su Quotidiano Nazionale che riguardano i rapporti tra le principali forze politiche in vista dell’elezione dei presidenti delle Camere e delle consultazioni

Big nazionali elezioni 2018

I principali leader dei partiti presenti alle elezioni politiche 2018

 Salvini e Di Maio accelerano e intensificano incontri e telefonate. Mattarella osserva, per ora scettico.

Salvini che telefona a Di Maio per accordarsi sulle cariche. Berlusconi che litiga con Salvini. Il Pd che si mette ‘a disposizione’ di Mattarella ma che riceve a sua volta, via Martina, da Salvini un’altra telefonata in cui il leader leghista spiega, come farà anche a Grasso, leader di Leu, che “il Parlamento deve essere operativo al più presto”. La giornata politica ieri ha segnato un’improvvisa e inattesa accelerazione. Forse persino al Colle è venuto mal di testa.
Il leader della Lega, Matteo Salvini apre ai 5Stelle (“Esclusa una collaborazione con il Pd tutto è possibile”), anche se sostiene di farlo a nome dell’intero centrodestra. Poi, in più, nel pomeriggio telefona direttamente a Di Maio: in teoria, solo per trovare un accordo sulla presidenza delle Camere, ma è impensabile che i due non abbiano parlato anche del futuro governo. Dal canto suo, il leader dei 5Stelle, Luigi Di Maio, dimostra sicumera assicurando che “Impiegheremo meno rispetto ai tempi che ha impiegato la Germania per formare il governo”. Sarà così per davvero?
Ma la telefonata Di Maio-Salvini è il preludio di un’intesa? Certo è che potrebbe sbloccare in modo rapido e indolore almeno la pratica dell’elezione dei presidenti delle Camere: Giancarlo Giorgetti, vero numero due di Salvini, alla Camera e Danilo Toninelli al Senato i nomi più gettonati, anche perché la seconda scelta di Salvini, Roberto Calderoli, potrebbe creare, per polemiche passate, più di qualche imbarazzo al Colle.
A fare da vasi di coccio tra i vasi di ferro ci sono i due sconfitti nelle urne. Berlusconi prova, dopo aver fatto inutilmente la corte al Pd, a respingere l’amaro calice che gli offre Salvini (“Aprire ai 5Stelle? Sì, per cacciarli fuori”) ma costretto a fare, furibondo, buon viso a cattivo gioco, con il rischio di veder svanire tutte le poltrone che contano.
Il Pd, invece, si è già assestato su una linea che suona come una litania: ‘tutto-quello-che-dice-il-Colle-ci-va-bene”. Il coordinatore della segreteria dem (e ormai in buon predicato di diventare capogruppo alla Camera del Pd), Lorenzo Guerini, mette uno stop alle avances di Berlusconi (“L’ipotesi di un appoggio del Pd a un governo di centrodestra è fantapolitica”), ma l’area dei ‘responsabili’, rispetto le richieste che, prima o poi, farà ai dem Mattarella, si allarga a vista d’occhio. Si va dal neo-segretario Martina al ministro Delrio, dal leader di minoranza, Orlando, al capofila dei non renziani di maggioranza, Franceschini, che ieri ha proposto, in un’intervista, “la legislatura costituente”.
Ma cosa intende fare, davanti a tutti questi ‘giri di valzer’, il Capo dello Stato? Ha poche certezze, ma tutte granitiche. La prima è che non manderà mai il Paese al voto senza che il Parlamento abbia riformato una legge elettorale, quella attuale, il Rosatellum, che è solo un pallido e pasticciato ricalco della legge che porta il suo nome, il Mattarellum.
La seconda è che non solo bisogna approntare, entro il 10 aprile, il nuovo Def, di portata triennale, ma che, entro il 15 ottobre, va licenziata e spedita a Bruxelles, per farsela bollinare, la nuova manovra economica. Al Def ci sta lavorando il ministro all’Economia, Padoan, ma l’approvazione delle nuove Camere, in presenza o anche in assenza di un nuovo governo, è decisivo per il suo varo. Potrebbero essere due commissioni ‘speciali’ (accadde nel 2013 quando il governo Monti, ancora in carica, e prima che nascesse quello Letta, di lunga gestazione, mandò il Def alla Ue), in assenza delle commissioni ordinarie, a doverlo approvare. Morale: al Colle sono convinti che 1) un governo ci sarà; 2) prima di un anno (aprile 2019) non si può tornare a votare. Se poi nascerà un governo ‘politico’ sull’asse M5S-Lega o un governo ‘istituzionale’, cioè di tutti, sarà scelta dei partiti.
NB: Questo articolo è stato pubblicato a pagina 3 del Quotidiano Nazionale il 15 marzo 2018.


2. Mattarella e le consultazioni ‘al ralenty’. Se non c’è nessun governo, si farà un governo di tutti…
Ettore Maria Colombo – ROMA
Nessun governo istituzionale e/o elettorale aperto a tutti e nessuna paura di tornare al voto, anzi. La coppia Salvini-Di Maio parla all’unisono, neanche si fossero messi d’accordo. Inoltre, sembrano a un passo dall’accordo sullo ‘scambio’ per la presidenza delle Camere, magari con Toninelli o Crimi (M5S) al Senato e Giorgetti (Lega) alla Camera (oppure, al contrario, piazzando Calderoli al Senato, un pentastellato alla Camera), lasciando a bocca asciutta Pd e FI che pure ci speravano in una carica affidata a uno di loro (Franceschini alla Camera, Romani al Senato). Salvini, da Bruxelles, ribadisce il suo stentoreo ‘me ne frego’ delle regole della governance europea (3% in testa) e ripropone la linea dura: centrodestra al governo ma con me. Il candidato premier dei 5Stelle, Luigi Di Maio, davanti alla Stampa Estera, usa accenti assai simili: “Non contempliamo alcuna ipotesi di governo istituzionale né di un governo di tutti”. Poi si rimette in sintonia con Salvini sulla presidenza delle Camere che, appunto, “non riguardano il governo”. Uno spiraglio per la formazione di un governo ‘di tutti’ arriva, invece, dal terzo incomodo, il Pd. “Se Mattarella – dice il ministro Graziano Delrio – ci chiedesse di fare il governo valuteremo. Il Presidente ha sempre la nostra attenzione e la nostra collaborazione”. Il neo-segretario dem, Maurizio Martina, ci va più cauto, ma il concetto è quello.
Ma cosa vuol fare, invece, Sergio Mattarella? L’impressione e l’aria che si respira al Colle è l’esatto contrario delle presunte ‘accelerazioni’ e voglie di chiudere al più presto la partita che gli vengono attribuite in qualche retroscena. Dato che – ragionano al Colle – i”due vincitori” non vogliono fare i conti con la realtà (né il partito arrivato primo, i 5Stelle, né la coalizione arrivata prima, il centrodestra hanno i numeri per governare) l’idea è di far ‘decantare’ la situazione, quasi che i due partiti che sbandierano i loro candidati premier e i loro programmi debbano ‘sfogarsi’, piantando le loro bandierine. Inoltre, al Quirinale non hanno “alcuna fretta” di accelerare il timing delle consultazioni. Le Camere si riuniranno per la prima volta il 23 marzo, come prima cosa dovranno eleggere i loro presidenti (compito non facile, specie a Montecitorio), costituire i gruppi parlamentari, eleggere i capigruppo. Complice il ponte Pasquale, che cade dal 30 marzo al I aprile, Mattarella potrebbe decidere di attendere ancora un po’ e far slittare l’inizio delle consultazioni al 2 aprile. Insomma, il Colle vuol far ‘sbollire’ la situazione e, alla fine, costringere i partiti – ‘tutti’ i partiti, da FI al Pd, che direbbero certo di sì, a Lega e M5S, che non potrebbero dire di no – ad appoggiare quel governo di scopo e/o istituzionale (guai però a chiamarlo ‘del Presidente’: Mattarella è un parlamentarista rigoroso e convinto) che appare, al Colle, l’unica strada realmente percorribile. Un governo che dovrebbe varare la legge di Bilancio, in autunno, e portare il Paese a nuove elezioni nel 2019, ovviamente dopo aver scritto una nuova legge elettorale. Un governo, quindi, con un’ampia, o amplissima, base parlamentare e retto da partiti che indicherebbero ministri di area mentre individuare il premier spetterà al Colle. Altro che ‘governo delle astensioni’ o della ‘non sfiducia’ come furono i tre governi Andreotti nel 1976-’79, retti da un patto di ferro tra Dc e Pci, i “due vincitori” delle elezioni del 1976, come li definì allora Aldo Moro. Mattarella, allievo di Moro, non pensa a quell’esempio ma a tutt’altra formula: il governo di collaborazione tra Dc e Pci del secondo dopoguerra, quando partiti che avevano visioni strategiche (e ideologiche) opposte del mondo dovettero collaborare perché bisognava tirar fuori il Paese dalla devastazione bellica.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2018 a pagina 6 del Quotidiano Nazionale