Il Pd fuori dai giochi. “Tocca a loro, punto” il mantra di Renzi. La difficile partita interna sui nuovi capigruppo

Il Pd fuori dai giochi. “Tocca a loro, punto” il mantra di Renzi. La difficile partita interna sui nuovi capigruppo

25 Marzo 2018 1 Di Ettore Maria Colombo

Pubblico qui di seguito tre articoli usciti dal 23 al 25 marzo sugli equilibri interni al Pd in merito alla partita dei presidenti delle Camere e della nomina dei capigruppo dem.

 

  1. Il Pd all’opposizione, fuori da tutti i giochi. Renzi dice: “Facciano loro, punto”. 

Ettore Maria Colombo – ROMA
Conclusione delle votazioni per il presidente della Camera. E’ Fico, applausi a scena aperta, poi i deputati di tutti i gruppi sciamano fuori dall’aula. I cronisti assaltano gli ingressi da dove escono i parlamentari di Lega, FI, M5S. Davanti all’ingresso dell’aula dove di solito esce il Pd, non c’è quasi nessuno. La scena intristisce. Il Pd “non tocca palla”: ha votato i suoi candidati di bandiera (Giachetti, che prende 102 voti, dieci in meno del gruppo dem, e Fedeli, che ne prende 52 su 53), non è stato mai in gioco sulle presidenze e i suoi parlamentari sembrano pugili suonati. Matteo Renzi, invece, sta al Senato e se la gode: saluta e scherza con Salvini, bacia la Ronzulli (FI), parlotta con i senatori che gli siedono vicino (Bonifazi, Marcucci, Parrini). Insomma, si diverte. Conia anche uno slogan che sembra un tweet:“Tocca a loro. Punto”, soggetto centrodestra e M5S. Il guaio è che ogni cosa che dice Renzi diventa un problema. Esordisce con un “Stanno decidendo i caminetti” che lui stesso, più tardi, asserisce essere riferito all’accordo Lega-M5S, ma quelli che, nel Pd, i caminetti li fanno per davvero la battuta la prendono malissimo. Dalla Camera, il segretario, Maurizio Martina, sbotta, stizzito e indispettito, “Caminetti? Si chiama collegialità”. Non parlano ma sbuffano anche gli altri big (Franceschini, Orlando) che hanno provato in tutti i modi a rientrare in partita, offrendo (e offrendosi) un patto sui presidenti, inutilmente, all’M5S. In serata, Orlando fa sapere che “nessun accordo è stato ancora sancito e quindi noi non avanziamo nomi”.
Non a caso, la partita interna al Pd è appena cominciata. I fronti aperti sono due. Il primo riguarda la nomina dei nuovi capigruppo di Camera e Senato. L’appuntamento è stato rinviato a martedì, quando le assemblee dei due gruppi (53 senatori e 112 deputati) dovranno decidere. All’unanimità o spaccandosi? I candidati di Renzi sono Lorenzo Guerini, ben visto anche dai franceschiniani, da Delrio e dalle minoranze, alla Camera, e Andrea Marcucci, renziano di ferro, al Senato. Solo che, con il passare delle ore, la situazione s’è incartata. Rosato, capogruppo uscente alla Camera, vorrebbe essere riconfermato, se continua l’impasse, ma per lui ci sarebbe un posto da vicepresidente, (uno su quattro al Pd gli spetta). Carica cui punta, però, anche l’orlandiana Pollastrini, che ieri già elogiava Fico. Al Senato, Marcucci potrebbe passare sia in modo unanime, in modo da mandare alla vicepresidenza un’altra orlandiana, Anna Rossomando, sia con la conta. I renziani (32 su 53) si sentono sicuri di vincerla al Senato come pure alla Camera, dove invece sono, con gli orfiniani, 73 su 112. Ma Guerini, che ha offerto a Renzi di fare un passo indietro per Delrio, spera e assicura che “la conta non servirà”. A sera, Orlando fa sapere che “non c’è alcun accordo su nessun nome, né sui capigruppo né su altre cariche”, parole di guerra.
Infine, la convocazione dell’assemblea nazionale che dovrà decidere chi guiderà il partito. Martina assicura che la data sarà fissata “alla fine delle consultazioni”, cioè a fine aprile, ma i renziani scalpitano. E, soprattutto, sempre più ostili e insoddisfatti di fronte a un Martina che, secondo loro, “gestisce male il partito ed ha un profilo scialbo” sono alla febbrile ricerca di un nome da opporgli o in Assemblea o alle primarie, se ci saranno. Richetti è troppo debole, Delrio sarebbe perfetto ma recalcitra, Renzi cerca un nome.
NB: Questo articolo è stato pubblicato 1l 25 marzo 2018 su Quotidiano Nazionale.  


2. Il Pd crede di poter tornare in gioco, ma dura poco. Il toto-nomi sui capigruppo.  

Ettore Maria Colombo – ROMA
Verso l’astensione, o meglio la scheda bianca. Tutto è in alto mare, per l’elezione dei presidenti delle Camere, e così il Pd torna in gioco e, specie da palazzo Grazioli, è cercato. I dem – convocati ieri alle 18 alla Camera per una riunione congiunta dei gruppi di Camera e Senato, presieduta dal segretario reggente, Maurizio Martina – decidono la svolta. Dopo aver rifiutato, per settimane, di discutere di nomi, Martina comunica la novità, sicuramente escogitata nel caminetto dei big della sera precedente, quello cui erano presenti tutti i vari big, comprese le minoranze, tranne i renziani. Prima il Pd accetta di sedersi al tavolo chiesto da Di Maio, tavolo che si è tenuto a sera inoltrata, con gli altri gruppi, poi Martina, uscendo dalla riunione, annuncia che la scelta è di “partecipare a un confronto che coinvolga tutti”. Da qui in poi, però, regna il mistero.
Per gli anti-renziani sono i renziani che vogliono votare Romani al Senato, nel segreto dell’urna, stante un patto stretto tra Lotti e Letta (Gianni). Per i renziani sono gli anti-renziani (Martina, Franceschini, Orlando, etc.) che vogliono votare un uomo di FI al Senato e, magari, un leghista alla Camera perché “non vedono l’ora di appoggiare un governo di centrodestra anche se non a guida Salvini, ma con a capo un Tajani”. Oggi si vedrà. La sola cosa certa è che il vero scontro interno, quello sul capogruppo del Senato (alla Camera il nome di Guerini è dato per sicuro), è stato solo rimandato. Zanda ha detto che non vuole un renziano, a nome di tutti gli anti-renziani. Renzi vuole invece sia Marcucci o, in alternativa, un altro renziano e toscano doc, Dario Parrini. In serata Renzi, via Enews, dice “Siamo tutti d’accordo: staremo all’opposizione” e poi fa il poeta: “credevano di averci seppellito e invece siamo semi”, ma sta parlando dei suoi.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2018 su Quotidiano Nazionale.


3. “Martina ci vuole fregare!”. Il grido di dolore dei renziani, assenti dal caminetto dei big. 

Ettore Maria Colombo – ROMA
“Altro che gestione collegiale! Martina ci vuole fregare!”. I renziani doc – che dentro il partito perdono terreno ma che nei gruppi parlamentari sono ancora la maggioranza (32 al Senato, 50 circa alla Camera) – appena scoprono la notizia si fanno a dir poco furibondi. Maurizio Martina, segretario facente funzioni, ha convocato per la sera un vertice di tutte le aree del partito sulle prossime mosse da compiere, futuri assetti istituzionali (presidenti delle Camere) in testa a tutti. Alla riunione, che si tiene al Nazareno in tarda serata, partecipano, oltre a Martina, i capigruppo uscenti, Zanda e Rosato, il presidente del partito Orfini e il coordinatore della segreteria, Lorenzo Guerini – i soli che i renziani ritengono ancora “leali” – i ministri Delrio e Franceschini, tessitore, con Gentiloni, di un Pd ‘a-renziano’, e i leader delle due minoranze interne, Orlando ed Emiliano. La presenza di quest’ultimo, che a Renzi ne ha dette di tutti i colori, viene vissuta dai suoi come un vero affronto, ma non che la presenza di Orlando venga vissuta molto meglio. Peraltro, Martina sapeva che Lotti e Boschi non sarebbero potuti essere presenti e l’assenza di Renzi – che continua a dire ai suoi che lui farà “il senatore semplice di collegio”, ma che oggi parteciperà all’assemblea congiunta dei gruppi – era scontata. Insomma, il vertice di ieri sera, uno di quei ‘caminetti’ che a Renzi hanno sempre fatto venir l’orticaria, è stata vissuta dai pasdaran renziani come uno schiaffo.
Detto questo, la riunione c’è stata e i big dem, ribadita la linea dell’opposizione a un governo centrodestra-M5S o Lega-M5S o Pd-M5S, si sono posti innanzitutto il problema del Grande Gioco istituzionale, i vertici delle Camere. La linea è quella del niet, ribadita con tanto di comunicato: “Il Pd non può partecipare a incontri i cui esiti sono già scritti. Se c’è già un accordo sulle presidenze da parte di qualcuno è bene che chi lo fa se ne assuma tutta la responsabilità”. Per l’alto scranno di Montecitorio il Pd è fuori dai giochi, al Senato i dem potrebbero dare una mano a Romani (FI), ma – spiega un big – “non ci stiamo a fare la Croce Rossa”. In ballo restano comunque ben trenta posti, tra vicepresidenze (quattro alla Camera e quattro al Senato), questori (tre e tre) e segretari d’Aula (otto e otto). Al Pd, secondo il ‘manuale Cencelli 2.0’, ne spetta il 20%. Ergo, due vicepresidenti (potrebbero essere Rosato alla Camera e Rossomando o Pittella al Senato), due questori e due segretari d’Aula. Ma il vero braccio di ferro in corso tra i dem, renziani e non renziani, si gioca sul fronte interno, quello dei capigruppo. Alla Camera il nome di Guerini non trova opposizioni. Al Senato, invece, quello di Marcucci – all’inizio vissuto come “di garanzia” anche dall’area Orlando – da giorni fa fatica a imporsi: gli sono stati contrapposti dalla Bellanova (peraltro renziana…) a Mirabelli e alla Pinotti (franceschiniani). A ieri Marcucci è il nome più forte, “ma se vogliono la conta – digrignano i denti i renziani doc – allora la faremo e il nostro candidato sarà Parrini, poi vediamo chi la vince”.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2018 sul Quotidiano Nazionale.