“Votiamo su come votare”… Il Pd in preda alle convulsioni di un’Assemblea nazionale che non decide nulla, neppure i rapporti di forza interni
21 Maggio 2018Cronaca di un’Assemblea nazionale. Una bolgia tra contestazioni e sfottò
Matteo Renzi sorride e rimette nella tasca i foglietti di una relazione che, se avesse letto, sarebbe stata “incendiaria” e tutta incentrata sulla denuncia di “una classe dirigente (quella del Pd, ndr.) irresponsabile che vuole trascinare il Pd nella guerra del fango proprio nei giorni in cui nasce il governo M5S-Lega”. Poi ascolta la relazione del segretario reggente, Martina, che lo attacca pesantemente, pur senza citarlo, finge un applauso di cortesia, si alza e se ne va. Lo scontro è stato solo rimandato di un mese o più. L’Assemblea nazionale che si è tenuta ieri all’hotel Ergife non ha, infatti, sciolto nessun nodo dentro il Pd. Ha solo congelato tutte le decisioni, rinviandole alla prossima Assemblea, ma già su quando tenerla è scontro: Martina vuole rinviarla almeno fino a ottobre, i renziani indicano il “30 giugno, 7 luglio al massimo”. Ieri è stata siglata una tregua fragile e ipocrita. Dei due fronti in guerra si sa: Renzi e i renziani da un lato, l’asse che fa perno su Martina, spalleggiato dalle due minoranze (Orlando ed Emiliano) e da un pezzo di ex maggioranza (l’area Franceschini-Fassino), dall’altro. La giornata sembra non iniziare mai. Convocati per le dieci, si accreditano in 829 delegati su 1168 aventi diritto, ma Orfini apre le danze solo a mezzogiorno. Per ore si è cercata una mediazione. I ‘martiniani’ sono sicuri: “Renzi non controlla più il Pd”. I renziani sventolano 398 firme (poi lievitate fino a 432) pronte a chiedere la convocazione immediata del congresso. Si prospetta una conta sanguinosa. Fassino per conto di Martina e Guerini – che ci ha lavorato per giorni – per Renzi cercano e trovano una faticosa mediazione, spalleggiati da Gentiloni e Minniti. La proposta che Orfini annuncia, aprendo i lavori, è di “mettere in votazione l’inversione dell’ordine dei lavori”, ma come in un’assemblea universitaria degli anni ’70 partono i cori di “buuu”. C’è molta insoddisfazione nella base e poi c’è laclaque portata dal Pd di Roma, in mano agli orlandiani, scatenata e fastidiosa, con la Cirinnà e Damiano che li capeggiano come veri capiultras. Alla fine, si vota: finisce con 397 a favore del rinvio e 221 contrari (più 6 astenuti) su un totale di 624 votanti. Le aree di Renzi e Martina-Franceschini stanno ai patti, le minoranze no, ma anche dei renziani votano contro.
Dopo, sembra calare la quiete e iniziano gli interventi. Martina, nella sua relazione, ci va giù pesante: “Se tocca a me, anche per poco, tocca a me”; “rinnoverò gli organi dirigenti”; “no a Lega-M5S ma anche no a FI”; poi attacca gli “errori nella formazione delle liste”; disegna, come faranno Orlando e Boccia, un partito ‘altro’ da quello di Renzi, dalle alleanze alle primarie. La claque esplode di felicità, i renziani strabuzzano gli occhi: “Gli accordi non erano questi”, sibilano. Intanto i big (Renzi, Gentiloni, i ministri) e molti delegati se ne sono andati, stufi e cupi, dentro il clima resta da stadio. I renziani meditano vendetta: votare contro la relazione di Martina o boicottarla, anche se dal palco c’è chi, come Marcucci, dice che la voterà. La relazione di Martina prende 294 sì, 8 astenuti, zero contrari, ma su un totale di 302 votanti, ben sotto il numero legale. Per i martiniani “Renzi da oggi à minoranza nel Pd”, i renziani dicono di avere con sé la forza dei numeri. Lo scontro interno è appena iniziato, presto deflagrerà. A meno che, in extremis, Renzi non si accordi con Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, per un “patto tra diversi” che comporti un’ennesima tregua, questa volta finale e definitiva, se e quando Zingaretti non si deciderà a correre per le primarie del Pd, appoggiato dalla minoranza di Orlando, non in antitesi a Renzi, ma appunto in accordo con lui e i suoi.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio sul Quotidiano Nazionale