NEW!!! “Pacchetto Pd”. Ben 11 articoli sulla Direzione dem (tutti i numeri). La resa ‘condizionata’ di Martina a Renzi. Governo con i 5Stelle archiviato, scontro interno no, solo una ‘tregua armata’
Nota bene. Pubblico qui gli articoli usciti in diversi giorni, dal 18 aprile al 4 maggio 2018, sul Quotidiano Nazionale che riguardano il mancato accordo per un governo tra Pd e M5S. e la presunta ‘resa dei conti’ nella Direzione dem del 3 maggio tra renziani e anti-renziani.
Matteo Renzi e Matteo Orfini alla Direzione del Pd
Martina si piega alla linea di Renzi, gli anti-renziani si spaccano: ‘tregua armata’
Tanto tuonò che non piovve. La Direzione del Pd, convocata ieri, 3 maggio, per decidere se sedersi o no al tavolo con l’M5S e poi, diventata, strada facendo – cioè dopo l’intervista tv di Renzi che tale prospettiva chiudeva, una resa dei conti sul ruolo del segretario reggente Martina e sulla domanda dalle cento pistole («Chi comanda, oggi, nel Pd»?) – si è risolta in un volemose bene che però cammuffa la resa «condizionata» di Martina e dei suoi a Renzi. Solo fuori dal Nazareno va in scena un vero e proprio bailamme con i militanti che se ne dicono di ogni: «Renzi torna», gridano alcuni, altri vogliono stracciare la tessera, uno se la prende con il povero Cuperlo, non mancano i neocatecumenali che intonano il loro Alleluja!.
Dentro, i toni sono in parte cupi, in parte distesi. Martina apre la Direzione (214 i membri, ieri erano presenti in 193, 117 i renziani pronti a ogni evenienza, Renzi compreso) con un appello all’unità («Basta liti tra noi»), chiede di rinnovargli la fiducia, ma solo fino all’Assemblea nazionale (si terrà entro fine maggio, il 19 o il 26 maggio, la data la deciderà Orfini nella sua qualità di presidente: di fatto la convoca quando gli pare); riconosce che la possibilità di trattare coi 5Stelle «è un capitolo chiuso», ma ci tiene a sottolineare che «dobbiamo dire no anche a governi di centrodestra»; offre, ovviamente, il massimo sostegno all’iniziativa di Mattarella. Insomma una resa senza condizioni, o quasi, a Renzi e ai suoi. L’unico sfizio che si toglie Martina (lo farà anche Orlando) è di indicare una cruda realtà: «Le elezioni anticipate sono più vicine».
Si aprono gli interventi, sono 35, Orfini annuncia che ci sarà un voto, ma non si sa se sulla relazione o su un ordine del giorno. Il premier Gentiloni segue in prima fila, Renzi è seduto, defilato, dietro. Mentre gli interventi scorrono, uguali e prevedibili tra loro (Orlando mette in guardia contro «la barca con due timonieri che imbarca acqua», Franceschini critica Renzi per la sua intervista in tv, ma smussa i toni, Cuperlo se la prende con «il fanatismo che sconfina nel settarismo», Fassino chiede di bandire la parola «tradimento» ma aveva agitato lui lo spettro scissione), dietro le quinte si lavora alacremente per una mediazione.
Il tessitore, tanto per cambiare, è Lorenzo Guerini. Sia Martina che Franceschini gli chiedono di scrivere un ordine del giorno in cui tutti possano riconoscersi sia sulla linea politica («No ai governi Di Maio e Salvini») sia sulla rinnovata fiducia a Martina, che vogliono scritta nero su bianco. Guerini si mette all’opera. Del resto, si è presentato con un documento, il suo, del giorno prima, forte di 117 firme, la maggioranza dei voti in Direzione: «una prova muscolare ben riuscita», sorride con un amico. L’ordine del giorno è pronto, ma quando il fronte degli anti-renziani (l’area Franceschini-Martina, l’area Orlando-Cuperlo, Emiliano, etc.) si riunisce scopre di essere molto diviso, al suo interno. Emiliano, nel documento, ci vorrebbe la riapertura del dialogo con i 5Stelle, Cuperlo l’abiura della linea del Pd degli ultimi anni, Orlando cose per palati fini, Franceschini, vorrebbe tenere aperte, da buon trattativista, diverse ipotesi e scenari di governo.
Alla fine, Martina e Franceschini tornano da Guerini e gli dicono: «Lascia perdere, non se ne fa nulla».La versione delle minoranze, specie quella dell’area Orlando, però, è diversa: fanno sapere che non avrebbero votato né gradito un ordine del giorno fatto dai renziani e che ne avrebbero presentato uno proprio, ribadendo la fiducia a Martina. Certo, alla fine viene votata, e all’unanimità, la relazione di Martina e dentro di quella – fanno notare sempre le minoranze – c’è un no netto non solo a un governo con i 5Stelle, ma anche a un governo con il centrodestra, comunque inteso (Salvini, Giorgetti, etc.). Ma la cosa curiosa e, insieme, divertente è che la giornata che doveva essere dei lunghi coltelli, finisce con il voto, all’unanimità, su una relazione, quella di Martina, dentro la quale non c’è il rinnovo della fiducia che pure il reggente aveva chiesto. I renziani gongolano: «Volevano la fiducia per Martina e dimostrare che avevamo paura di votare. Si sono divisi tra loro, uniti come sono solo dall’anti-renzismo, e invece i numeri li abbiamo noi». Si vedrà in Assemblea nazionale, dove l’importante per i renziani è che venga aperto il percorso congressuale e si eviti la conta dentro quell’organismo. Sembra che neanche Martina non cercherà la conta e accetterà il congresso anticipato, il che vuol dire fare le primarie entro ottobre. Renzi, dunque, vince punto, set e partita, ma per il congresso non ha ancora un candidato, a meno che Delrio non smetta di dirgli di no. Resta un punto fondamentale, per Renzi e i suoi: “le liste elettorali, quando si voterà, le farà il prossimo segretario oppure, se il percorso congressuale si sarà già aperto, il presidente del partito Orfini, unica figura che resterà in carica, una garanzia per noi”.
NB: L’articolo è pubblicato il 4 maggio 2018 a pagina 6 del Quotidiano nazionale.
Il Pd nel giorno della sfida. I big vogliono blindare Martina, i renziani sfiduciarlo
LA DIREZIONE dem di oggi, 3 maggio, lungamente attesa da tutti (Colle compreso) potrebbe sancire una drammatica, per quanto ennesima, spaccatura del Pd, o finire in una «tregua armata». Il vero obiettivo di tutti è quell’Assemblea nazionale che si terrà entro la fine di maggio (ma per Orfini, se oggi ci sarà rottura, verrà anticipata al 12-13 maggio) e che diventerà il giorno del giudizio del nuovo Pd, quello in cui si deciderà chi comanda. La domanda è chi traghetterà il Pd nella fase perigliosa che si apre, comprese le urne anticipate. Renzi ieri ha ribadito, nella Enews, che «il no al M5S non è una ripicca, ma rispetto per i nostri elettori, chi dice il contrario sbaglia. E io ho diritto di parlare». Renzi, in particolare, c’è l’ha con Fassino (e, dietro di lui, pare si stagli l’ombra di Veltroni che ha proposto “un nuovo bipolarismo tra un polo M5S-Pd, un nuovo Ulivo, e un nuovo centrodestra, quello che fa asse sulla Lega”, proposta che Renzi farà sapere di ritenere “profondamente pericolosa e sbagliata, sarebbe un vero suicidio per il Pd”.
MA SE IL FINALE verrà scritto solo oggi, in Direzione, fino a ieri la trattativa è andata avanti tra stop and go continui. Da un lato Guerini e Delrio, per conto di Renzi, dall’altra Martina stesso, Franceschini e Orlando a telefonarsi, mediare, cercare l’intesa. I due fronti contrapposti si minacciano con nomi e numeri divergenti. Con Martina stanno molti big: Veltroni e Franceschini, Orlando ed Emiliano, i sindaci di Milano e Bologna, Sala e Merola, i governatori di Lazio e Piemonte, Zingaretti e Chiamparino, praticamente tutti i ministri (Madia, Minniti, Pinotti) e pare lo stesso premier Gentiloni. Gli anti-renziani assicurano di avere «il 48-49% di una Direzione che Renzi non controlla più». Ma i renziani sanno di avere i numeri dalla loro. Su 214 componenti (209 più 5 di diritto) sono in 117 (compresi 19 Millennials e 13 di Orfini), 10 più del quorum (105), contro 70/75 anti-renziani così ripartiti: 20 di Franceschini, 9 di Martina, 2 di Veltroni, 2 ulivisti, dieci incerti e 46 minoranze (32 di Orlando e 14 di Emiliano).
Lorenzo Guerini, il Forlani di Renzi, scrive e fa diffondere un dispositivo che vuole essere un gesto di pace ma che suona un po’ minaccioso: «Niente conte interne, mai fiducia a un governo Di Maio o Salvini, confronto con tutti, ma partendo dall’esito del voto». Il problema sono le firme in calce al testo: 120 membri della Direzione, ben 77 deputati (su 111) e 39 senatori (su 52), entrambi i capigruppo di Camera e Senato, Calenda (non Richetti), tutto il partito tosco-emiliano, marchigiano e ligure, ma con poco Centro-Sud.
Insomma, il ‘partito di Renzi’ sta dicendo: «Senza i nostri voti, non nasce alcun governo», ma anche «noi possiamo sfiduciare Martina, che dovrebbe dimettersi, non metteteci alla prova». Come spiega Renzi ai suoi «la questione numeri l’abbiamo chiusa, ora Martina ci venga a chiedere una mano». Guerini insiste («Il mio appello è per l’unità e contro le conte»), ma la minoranza la prende malissimo e replica: «Chiederemo un voto per rinnovare la fiducia a Martina». Orlando chiosa: «La conta per non fare la conta non s’era mai vista». Franceschini imperioso: «Anche Renzi deve votare la fiducia a Martina». L’ex leader annuncia di aver firmato il documento di Guerini, poi si sfoga: «Sono due mesi che tutti danno la colpa a me invece di discutere di cosa fanno gli altri partiti…».
IN PIÙ, spunta un sito, mutuato dall’hashtag renziano #senzadime, che pubblica i nomi dei membri della Direzione e le loro posizioni sull’accordo coi 5 Stelle. Martina ne chiede l’immediata chiusura («Siamo alle liste di proscrizione»), i renziani si dissociano rapidi e imbarazzati, poi Democratica scopre che è un militante di Leu. Martina alza la testa e fa sapere: «Serve unità nella chiarezza perché chiedere unità dopo che hai delegittimato chi sta gestendo collegialmente questa fase è come prendere in giro tutti i tuoi». Sembra una dichiarazione di guerra, Orlando chiede «unità nella chiarezza» e mette un altro paletto: «Dire no a Salvini». A sera tarda Guerini si attacca al telefono con Franceschini, Delrio con Martina e Orlando, ma se oggi ci sarà l’agognata «tregua armata» sarà un miracolo.
3. La strategia di Renzi alla Direzione: ribadire il no a M5S, disarcionare Martina.
Ettore Maria Colombo – ROMA
Lo scontro, dentro il Pd, è totale. La guerra da fredda, tra i renziani e gli anti-renziani (il fronte che fa perno sul reggente Martina e che abbraccia Franceschini, Orlando, Emiliano e molti altri big, sia ministri del governo Gentiloni che colonnelli del Pd, da Fassino in giù, sia sindaci come Sala e Merola che governatori come Chiamparino e Zingaretti), è diventata calda e giovedì, in Direzione, esploderà. Probabile un voto che registrerà la definitiva spaccatura interna su tre assi: la ‘politica interna’ (come e chi deve condurre il partito), la ‘politica estera’ (con quali partiti si può trattare) e la politica ‘costituzionale’ (che partito deve essere il Pd). Ma un voto in Direzione sarebbe solo l’antipasto. La spaccatura finale si consumerà in Assemblea nazionale, la cui data di convocazione si avvicina a grandi passi (entro la fine di maggio, forse il 20 maggio). Ma sarà in Direzione che si deciderà se il nuovo segretario del Pd verrà eletto in Assemblea o se verrà eletto attraverso un congresso vero e, quindi, attraverso le primarie.
La strategia dell’ex leader è adamantina quanto semplice. Nell’intervista a Fabio Fazio, domenica sera, Renzi si è ripreso la scena pubblica ed è tornato al centro del dibattito politico. Giovedì Renzi si riprenderà, anche fisicamente, il partito. Non potrà non andarci, ma pare che si limiterà ad ascoltare la relazione di Martina e, solo dopo, deciderà il da farsi. Cioè innanzitutto se intervenire a sua volta o meno e poi se scatenare o meno i suoi pasdaran in un voto contro Martina. Se quella del reggente sarà una resa senza condizioni (difficile, ma non impossibile) alla chiusura al dialogo con i 5Stelle e, soprattutto, al suo ingombrante ritorno sulla scena, bene, avranno vinto i ‘dialoganti’ e i moderati renziani (Guerini e Delrio) che invitano, da ieri, “alla calma” e “all’unità”. E’ la linea che, a oggi, Renzi predilige e che spera passi: ha ‘investito’ Guerini di cercare, con i suoi avversari interni, ogni forma di mediazione possibile. Se, invece, Martina metterà sul piatto sé stesso e la sua reggenza, chiedendo un voto sulla sua relazione, allora si voterà. In quel caso, però, il finale è già scritto: Martina sarà il ‘re di maggio’ del Pd e, come Umberto I re d’Italia, avrà regnato un mese solo. Infatti, i renziani sono, su 215 membri della Direzione (ai 210 membri eletti in base agli equilibri congressuali ne vanno aggiunti cinque di diritto: il tesoriere, il responsabile organizzazione, il presidente della commissione di garanzia, il vicesegretario e l’ex premier), ben 130 (98 membri più 20 Millennials in pancia e contandovi anche 13 Giovani Turchi) contro i 78, al massimo, di anti-renziani, tutti compresi (20 di Franceschini, 9 di Martina, 32 di Orlando, 14 di Emiliano, 2 ulivisti, mentre vengono dati come ‘incerti’, in un voto, i 3 di Delrio). A quel punto, con le dimissioni di Martina sul tavolo e un Pd drammaticamente spaccato, l’Assemblea nazionale verrà convocata a spron battuto. Martina potrebbe cercare di farsi rieleggere lì dentro, impedendo che il Pd vada al congresso, ma anche lì i numeri giocano tutti dalla parte dell’ex leader. Su mille delegati dell’Assemblea eletti e anche sottraendo, oltre alle minoranze (300), circa 200 tra franceschiniani, martiniani e malpancisti vari, 460-500 delegati sono e restano renziani fedeli alla linea del Capo. Certo, nel percorso di celebrazione delle primarie, a Renzi manca un candidato valido da individuare (Renzi continua a puntare su Delrio, che recalcitra ma che è la sua vera, e allo stato unica, carta coperta) e lanciare e le elezioni anticipate potrebbero interrompere il percorso. “Ma – fanno notare i pasdaran – in caso di voto anticipato, la gestione del partito, liste da compilare in testa, finisce in mano alla commissione congresso e a Orfini”, una garanzia, per Renzi. Obiettivo finale, nella speranza che non si voti a settembre, ma nel 2019, poco prima o insieme alle Europee, non un ‘nuovo partito’, brutta copia di En Marche! di Macron, ma un ‘partito nuovo’, macronizzato nei contenuti e nel piglio, che con Macron faccia asse in Europa.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 2 maggio 2018 sul Quotidiano Nazionale.
4. Renzi va in tv per fermare il dialogo coi 5Stelle. Martina vuole il referendum.
Ettore Maria Colombo – ROMA
La tensione e l’aspettativa in vista della prima uscita pubblica (nel senso di intervista) dal 4 marzo dell’ex leader del Pd, Matteo Renzi, che stasera parlerà da Fabio Fazio, è già scemata. Infatti, davanti ad alcune ricostruzioni che vedevano covare, nell’intimo di Renzi, la possibilità di un’apertura, seppure condizionata, a un governo coi 5Stelle, i suoi hanno pensato di diffondere una sintesi tranchant, del pensiero del Capo che suona così: “L’accordo con i 5stelle sarebbe una gigantesca presa in giro degli elettori”. Da Renzi, dunque, non ci si deve aspettare nulla che non sia la rivendicazione delle “ottime riforme” fatte in “cinque anni di governi di centrosinistra” e l’invito – si fa per dire – ai 5Stelle, se vogliono “accomodarsi a discutere con noi”, a sgombrare il campo dall’idea di smontarle, le belle riforme. Insomma, per Renzi, la pratica ‘dialogo con i 5Stelle’ è archiviata ancora prima di essere squadernata sul tavolo e la Direzione del 3 maggio si deve trasformare in un pro-forma che servirà solo a porre dei paletti invalicabili quanto inaccettabili, per i 5Stelle. L’unico scrupolo di Renzi è di salvaguardare l’unità del Pd, cioè non arrivare a un voto che lo vedrebbe vittorioso, ma che ne sancirebbe la spaccatura. A questo lavorano i mediatori renziani Guerini e Delrio.
Il segretario del Pd, però, per quanto reggente, si chiama Maurizio Martina, non Matteo Renzi, e il reggente non ci sta a fare la parte di quello la cui linea viene sconfessata. Prima ci tiene a puntualizzare che “Il 3 maggio non dovremo decidere se fare o non fare un governo con l’M5S, ma se iniziare un confronto, trovare dei punti d’intesa”, poi dà a Renzi quello che è di Renzi (“C’è bisogno del suo protagonismo e della sua forza”), ma alla fine tira fuori la proposta-bomba. Far votare gli iscritti (i famosi “territori”) nel caso in cui il Pd apra al dialogo con l’M5S. Al di là del fatto che la proposta non è originale (l’ha fatta, giorni fa, il ministro Andrea Orlando, capofila dei trattativisti, insieme a Franceschini) e che sarebbe alquanto complicato metterla in pratica (durante la crisi di governo? A valle? A monte?), la proposta del reggente cade nel silenzio imbarazzato, e imbarazzante, di tutti i dem che contano. Le agenzie sfornano solo le solite dichiarazioni di chi si dichiara favorevole ad ‘aprire un tavolo’ con i M5S (i sindaci di Milano e Roma, Sala e Merola, Boccia, etc.) e di chi si dice ferocemente contrario (Gozi, Ricci). Morale: il tentativo di Martina di auscultare gli iscritti (e/o gli elettorali) appare già parce sepulto.
Resta da capire di fronte al preventivatile fallimento del dialogo tra Pd e M5S, cosa farà Mattarella, in silenzio dal 13 aprile, quando parlò al termine del secondo giro di consultazioni. Lega e FI chiedono di dar vita a un governo di minoranza targato centrodestra e, molto probabilmente, a guida Giorgetti. Il Pd accetterebbe un governo del Presidente purchessia, i 5Stelle tacciono sugli scenari futuri. La prosecuzione del governo Gentiloni, in carica per il disbrigo degli affari correnti, è implausibile (e Gentiloni vuole allontanare l’amaro calice): Lega e M5S farebbero fuoco e fiamme. Non resta che un governo del Presidente, ma di minoranza, che traghetti il Paese verso nuove elezioni, non prima di aver messo in sicurezza i conti (manovra economica) e aver scritto una nuova legge elettorale. Se sarà un governo ‘balneare’ o di maggior respiro si scoprirà strada facendo.
5. Renzi finge di aprire il dialogo ai 5Stelle ma in realtà sono condizioni capestro.
Ettore Maria Colombo – ROMA
L’ex leader del Pd, Matteo Renzi, domenica sera andrà in tv, su Rai Uno, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa e tutti – dentro il Pd, nei 5Stelle e pure al Colle – attendono di sapere cosa avrà da dire. E’ la prima volta che Renzi parla in pubblico dal giorno della conferenza stampa al Nazareno con cui si dimise da segretario dopo la batosta elettorale. Dal 5 marzo a domenica 29 aprile saranno passati quasi 60 giorni lunghi esattamente come la crisi di governo in corso. Aprirà o chiuderà al dialogo coi 5Stelle per fare il governo? L’ex premier è abbastanza accorto da evitare di chiudersi, pubblicamente, nella posizione dell’arrocco, che predilige, almeno in questa fase, detta anche posizione dell’Aventino. Renzi, quindi, farà un ragionamento il cui succo sarà: “andiamo a vedere le carte che ci sottopongono i 5Stelle, ma alle nostre condizioni e con in mano i nostri 100 punti”, quelli che il Pd ha sbandierato nella campagna elettorale. Insomma, l’ex segretario metterà tante condizioni capestro, a un possibile dialogo, e l’M5S non potrà che dire ‘non se ne fa nulla’. Il massimo risultato con il minimo sforzo, condite da alcune frasi per ottenere “l’effetto Cincinnato” (“Io ministro? No, grazie. Io di nuovo segretario? No, grazie. Sono senatore di Scandicci e mi trovo benissimo”).
Il vero obiettivo di Renzi, è in realtà un altro: mantenere a tutti i costi la (fittizia) unità di un partito che, se dovesse dividersi, nella Direzione del 3 maggio, con il voto, darebbe l’immagine di stare sull’orlo dell’ennesima scissione. E anche se Renzi è sicuro di avere dalla sua i numeri utili, dentro la Direzione come dentro i gruppi parlamentari, per chiudere la partita da solo, i suoi consiglieri più saggi (Guerini, Delrio, ma anche Lotti) lo invitano a non strafare. E il povero Martina, in teoria segretario (reggente) del Pd? Potrebbe essere costretto a fare buon viso a cattivo gioco, accettando la linea di Renzi ma salvando a sua volta l’unità del Pd ed evitando un voto che, se lo perdesse, segnerebbe l’anticamera delle sue dimissioni. Ieri, Martina ha ‘pregato’ “tutti di discutere e riflettere avendo sempre a cuore l’unità del Pd”, come se stesse cercando una sponda propro in Renzi. I renziani più fumantini (Orfini) tengono la pistola carica della conta sotto il tavolo, ma ieri hanno smesso di fare la faccia feroce: potrebbe finire a ‘tarallucci e vino’, la soluzione preferita dal solito Guerini che a questo lavora. Naturalmente, però, la minoranza protesta e si fa sentire. Ieri ha parlato il ministro Orlando, chiedendo “un tavolo di trattativa” e chiedendo di “coinvolgere la base con un referendum aperto agli iscritti e a tutti gli elettori dem”, idea caldeggiata anche dalla friulana Deborah Serracchiani. Ma il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, al dialogo ci mette una bella pietra tombale sopra: “Non si può fare un governo con chi pensa che si debbano smontare le riforme fatte dai governi di centrosinistra in questi anni”. Renzi la pensa allo stesso modo, lo dirà in tv da Fazio e dal suo ‘no’ di fatto il Colle dovrà ripartire, sapendo che un governo del Presidente è impresa improba e che le urne a fine settembre si avvicinano a grandi passi, magari traghettati da un governo ‘balneare’ stile Prima Repubblica.
6 .Il “quasi sì” di Martina a M5S apre la guerra nel Pd. Renzi: “allora sarà guerra”.
Ettore Maria Colombo – ROMA
Come sempre, in politica contano le facce. E così quando il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, esce dallo studio del presidente esploratore Roberto Fico e dice che “Sono stati fatti passo avanti importanti che vogliamo riconoscere”, nel confronto con i 5 Stelle, le facce di due su quattro dei suoi colleghi di delegazione, quelle del capogruppo al Senato Marcucci e del presidente del partito, Orfini, oscillano tra l’irato e l’imbarazzato mentre il capogruppo alla Camera, Delrio, alza gli occhi al cielo. Insomma, nel Pd non sono d’accordo su nulla. La sola cosa che Martina annuncia e sulla quale l’assenso è unanime è che “la decisione su come procedere verrà presa dalla direzione del Pd che si terrà il 3 maggio perché siamo una comunità collettiva”. Solo che, fin troppo ‘collettiva’, la comunità del Pd è spaccata in due fronti contrapposti e, ormai, noti. Da un lato c’è chi con i 5Stelle non prenderebbe neppure un caffè (copyright Giancarlo Pajetta), cioè Renzi, che si continua a dire “fortemente contrario” a ogni ipotesi di accordo di governo coi 5Stelle, più Orfini. Dall’altro c’è chi aprirebbe, e subito, il tavolo di confronto, anche perché come dice Orlando, agitando lo spauracchio, “se la Direzione dice no al dialogo, prepariamoci al voto”, un voto anticipato che mette paura a tutti, renziana compresi, nel Pd. Tra i primi, gli ‘aventiniani’, ieri hanno parlato in tanti. Il renziano Matteo Ricci twitta che “siamo lontanissimi dai 5Stelle sui programmi. L’M5S vuole solo annientarci”. Il ‘turco’ Francesco Verducci ci va giù ancora più pesante: “Siamo forze incompatibili e alternative. Un accordo con i 5Stelle sarebbe la negazione delle ragioni per cui il Pd è nato”. I secondi si espongono molto meno, ma sono tutti nomi di prima fila. Si tratta di un ‘frente amplio’ che va da Franceschini a Orlando, da Emiliano a Cuperlo, dai sindaci Sala e Merola ai governatori Chiamparino a Zingaretti, dai prodiani ai veltroniani. Più tutti i ministri del governo Gentiloni, tranne Lotti, Calenda e però anche Gentiloni, che la definisce una ipotesi “implausibile”.
Anche sulla data della Direzione, ieri il Pd ha litigato: Martina e Franceschini volevano farla a spron battuto, per evitare l’arrocco di Renzi e per non ‘irritare’ il Capo dello Stato, i renziani volevano rinviarla sine die, assai ‘irritati’, a loro volta, per la prescia che, secondo loro, il Colle mette al Pd. E’ passato, tanto per cambiare, il ‘lodo Guerini’ (la Direzione si terrà il 3 maggio), che continua la sua opera di mediazione interna, insieme a Delrio, ma Cuperlo critica la data troppo in là e allora Guerini gli ribatte così: “A chi tra noi non condivide i tempi vorrei dire che abbiamo di fronte passaggi delicati che meritano una riflessione non affrettata. Ci dobbiamo confrontare, ma nei tempi necessari, senza fughe in avanti”. Peraltro, Guerini lavora anche e soprattutto perché in Direzione non si arrivi a un voto che sarebbe, di fatto, una sfiducia verso Martina. Ma come sono i numeri dentro gli organismi direttivi del Pd? La Direzione conta 215 membri, compresi 20 Millenials, tutti renzianissimi, così ripartiti: 117 renziani (che sostengono di averne, in realtà, ben 140 voti dalla loro) e 13 Giovani Turchi (Orfini), che fa 130 ‘aventiniani’ contro 78 ‘aperturisti’: 20 di Franceschini, 9 di Martina, 2 veltroniani, 3 di Delrio, 32 di Orlando e 14 di Emiliano. Sulla carta, non c’è partita. E anche nei gruppi parlamentari i numeri sono schiaccianti per Renzi: 35 senatori per il no su 52 e 75 deputati su 112. La conta, però, sussurra Franceschini ai suoi, dimostrerebbe che “il Pd è spaccato in due e Renzi non ne controlla che la metà”. Si vedrà se ci sarà.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2018 a pagina 4 del Quotidiano Nazionale.
Il ministro all’Agricoltura e nuovo segretario del Pd Maurizio Martina
7. Governo con i 5Stelle sempre più in salita, renziani scatenati contro Martina.
Oggi pomeriggio, il presidente esploratore, Roberto Fico, dopo un’altra tornata di incontri con le delegazioni del Pd e dell’M5S, salirà al Quirinale per riferire lo stato dell’arte. Potrebbe chiedere “più tempo”, in attesa che i processi politici, dentro il Pd, maturino (Direzione dem il 2 maggio) o forse ottenere un pre-incarico per sé. Oppure Mattarella potrebbe attendere ancora (domenica 29 si vota in Friuli), fare lui stesso un terzo giro di consultazioni e poi suonare la campanella finale, quella del governo istituzionale, il suo. Eppure, mentre la trattativa Pd-M5S torna in alto mare, il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, assicura, a Porta a Porta, comodamente seduto nel salotti di Bruno Vespa, che ci sono spiragli: “La sfida di governare con l’M5S l’accetto. Siamo a un passaggio di fase il percorso è stretto, ma possiamo aprire un percorso. Io ci proverò fino in fondo”, dice. Apriti cielo.
I fautori dell’accordo esultano, il renzianissimo Michele Anzaldi twitta: “Martina crede di fare la Direzione del Pd e di cambiarne la linea da Vespa?”. La Morani, una delle pasdaran preferite da Renzi, rilancia e tra i renziani monta l’ira funesta contro un segretario, quello reggente, che “cerca di fregarci a ogni piè sospinto – dicono – ma ora basta: se la sua linea verrà sfiduciata in Direzione – è la loro ultima minaccia – non potrà certo più fare il reggente”. Insomma, la Direzione, convocata per il 3 maggio (e Marcucci ha convocato il gruppo del Senato lo stesso giorno: qui i renziani sono 32 su 52, la maggioranza) – sembra su discreto pressing del Colle, che chiede “soluzioni condivise”, al Pd, ma anche di “decidere presto” – può trasformarsi in una sanguinosa sfida all’Ok Korral. Sulla carta, il vincitore (Renzi) e il perdente (Martina), se ci sarà un voto in Direzione sono già scritti: 117 i renziani, più i 13 di Orfini, su 215 membri votanti, contro i 78 delle altre aree (20 di Franceschini, 9 di Martina, 32 di Orlando, 14 di Emiliano, 2 veltroniani e 3 di Delrio), cui non basterebbero certo alcuni insoddisfatti e diversi cani sciolti per ribaltare una votazione che vedrebbe Renzi prevalere, ma al prezzo di una drammatica spaccatura dentro il partito. Certo, c’è chi – come Guerini e Delrio – lavora per sminare il terreno e arrivare a una scelta condivisa e non traumatica, ma le avvisaglie promettono tempesta. Potrebbe arrivare, dai renziani, anche la richiesta di indizione dell’Assemblea nazionale cui Martina si dovrebbe presentare dimissionario.
E magari sarà vero, come dice il segretario reggente, che “io e Renzi, ndr ci parliamo in continuazione”, ma il guaio è che, evidentemente, i due proprio non si capiscono. Renzi, per dire, al corteo indetto dall’Anpi a Firenze, del tutto ‘casualmente’ ha fatto un sondaggio volante sull’opportunità o meno che il Pd governi con l’M5S. Scontata la risposta con tanto di incitamenti a ‘tornare’. Ma anche se la richiesta del renziano doc Antonello Giacomelli (“Renzi ritiri le dimissioni e torni a guidare il partito”) non verrà accolta, i renziani ghignano: “Di Maio è un babbeo. Se voleva avere una chanche, doveva parlare con Matteo, non con Martina”. NB: L’articolo è pubblicato il 26 aprile 2018 a pagina 5 del Quotidiano Nazionale.
8. La delegazione del Pd incontra Fico: Martina è disponibile al confronto, Renzi no.
La delegazione del Pd esce dallo studio di Roberto Fico e Maurizio Martina dice alla stampa: «Siamo disponibili al dialogo e ci impegniamo ad approfondire un percorso comune con i 5Stelle. Per noi i punti qualificanti sono Europa, conti, democrazia. Se l’M5S rompe ogni dialogo con la Lega, valuteremo il fatto nuovo. Ci impegniamo ad approfondire un possibile percorso comune in Direzione e nei gruppi parlamentari». Un’apertura, grossa e importante. I patti preventivi tra Renzi, i suoi e Martina, però, non erano questi. Per preparare l’incontro con Fico l’esploratore al Nazareno si erano visti in cinque: il segretario Martina, i due capigruppo di Camera e Senato, Delrio e Marcucci, il presidente del partito Orfini, e Lorenzo Guerini, l’unico che, poco dopo, non andrà da Fico. La riunione si fa subito molto tesa e volano gli stracci: Martina vorrebbe, di fatto, «aprire» subito ai 5Stelle, chiedendo solo un’intesa su pochi punti. Marcucci, renziano doc, e Orfini (orfiniano, ma più renziano di Renzi) alzano le barricate: per loro nessun dialogo con i 5Stelle è possibile, figurarsi un governo. Guerini e Delrio fanno i mediatori, come è nel loro stile. Il faticoso compromesso sta in tre punti: 1) M5S chiuda in modo netto e definitivo alla Lega; 2) il Pd sbandiera i «cento punti» con cui si è presentato alle elezioni; 3) solo una nuova Direzione può valutare gli eventuali fatti nuovi e decidere un cambio di linea rispetto a quella dell’Aventino. Solo della questione della premiership di un eventuale governo M5S-Pd (se Di Maio o altri) non si parla: accantonata. Guerini confida a un amico che «la partita è complicata, il percorso è lungo e l’esito incerto, ma bisogna andare a vedere le loro carte, sfidare l’M5S al confronto». Delrio la pensa proprio come lui. Entrambi vogliono scongiurare una rottura nel Pd, perché, dice sempre Guerini, «io la penso come Moro: se dobbiamo sbagliare dobbiamo farlo tutti insieme». Sembra fatta e la Direzione, che Martina voleva tenere a spron battuto, slitta ai primi di maggio. Insomma, il Pd chiede tempo: a Fico, all’M5S e pure a Mattarella. Ma poi, appunto, Martina esce, parla, Franceschini, Orlando, Emiliano e i veltroniani ne sostengono l’apertura immediata al dialogo e Renzi va su tutte le furie. La bolla della finta unità del Pd scoppia. I pasdaran (Gozi, Morani, Ascani, Ceccanti, Margiotta, Anzaldi) si scatenano nell’hastag #senzadime e in due nuovi di zecca: #iovotocontro e un’altro, assai sintomatico, #Renzitorna.
I renziani, e forse anche il Capo, sospettano anche che, dietro le aperture di Martina e di Franceschini, si stagli l’ombra del Colle: «E’ Mattarella – sibila un big renziano – che vuole farci fare a tutti i costi un governo con Di Maio e che lì, in un modo o nell’altro, ci porterà». Renzi, in caso di rottura con l’asse Martina-Franceschini-Orlando, è pronto alla battaglia. I suoi hanno fatto i conti: in Direzione, i renziani sono 117 (più i 13 di Orfini) su 210 votanti, depurati degli uomini di Franceschini, Martina e Delrio (circa 33-35) e, ovviamente, delle due minoranze (Orlando ne ha 32 ed Emiliano 14, totale 46) assai aperturiste, molto più dello stesso Martina, verso il dialogo con i 5Stelle. Nei gruppi parlamentari stanno con Renzi 35 senatori su 52 e circa 70/75 deputati su 112. Insomma, in teoria, Renzi può portare il Pd a dire di no a qualsiasi governo. Ma lo farà? O, come dice un’altro big, «Matteo gioca su più tavoli: se l’alternativa al governo con l’M5S fosse solo il voto, potrebbe dire sì all’M5S o altri, purché sia chiaro che nel Pd comanda lui».
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2018 sul Quotidiano Nazionale.
9. “Andiamo a vedere le carte” contro “Mai con i 5Stelle”: due linee spaccano il Pd.
Ettore Maria Colombo – ROMA
«Mai con i 5Stelle» da una parte, «andiamo a vedere le carte» dall’altra, condita da un – più ecumenico, nel senso che va bene a tutti – «prima però Di Maio chiude definitivamente il forno aperto con la Lega». Nel Pd è l’ora del redde rationem con l’M5S. Renzi e i suoi non hanno dubbi: nessuno patto con i pentastellati. Non appena l’incarico esplorativo a Fico diventa ufficiale, parte la contraerea, coordinata personalmente dal senatore di Rignano. Parlano, a raffica, il presidente del partito Orfini («Siamo due partiti radicalmente alternativi, non c’è possibilità di accordo politico»), il capogruppo dei senatori Marcucci («Mancano anche le condizioni minime per discutere di governo») e poi tutti gli altri (Morani, Margiotta, Faraone, Di Maio, un caso di omonimia, etc). Ma il fuoco di sbarramento dell’esercito renziano ha anche (o, forse, soprattutto) un bersaglio interno: impedire che parta il valzer degli “aperturisti”, il famoso partito «ministeriale» che non vedono l’ora di dialogare anche col Diavolo pur di restare dove stanno.
Infatti, con l’accorta e discreta regia di Dario Franceschini (ufficialmente silente) e di Andrea Orlando, che vuole «andare a vedere le carte», come dice un suo fidato colonnello, Antonio Misiani, gli “aperturisti” sono in frenetico movimento e da giorni. L’ultimo colpo, in questa direzione, è stato del sindaco di Milano, Beppe Sala, mentre Francesco Boccia chiede di «convocare urgentemente una Direzione». Ma c’è chi sospetta che presto possano tornare alla carica «quelli che – insinua un renziano con astio – guardano anche al proprio futuro: Prodi e Veltroni aspirano il Quirinale mentre Franceschini pensa più concretamente che un incarico a Fico libererebbe per lui la casella di Montecitorio». Ieri, la prodianissima Sandra Zampa ha spiegato che il Pd dovrebbe adoperarsi per «far partire un governo dei 5Stelle, magari con l’astensione» mentre dalle parti del governatore Zingaretti suggeriscono di fare «come in Lazio», ma a parti invertite: «Il Pd dia l’appoggio esterno a un governo a guida M5S».
La terza linea è quella dei renziani soft, trattativisti (Delrio, ma anche Guerini, Rosato, Fassino): predicano «calma e gesso» e dicono che «la partita è complicata, le distanze politiche e programmatiche sono evidenti», ma non chiudono la porta in faccia all’M5S a prescindere. Per dirla con Rosato, «quando avranno deciso di chiudere il tavolo con la Lega, sarà più facile confrontarsi» o, per dirla con Fassino, «bisogna verificare se esistono le condizioni per un dialogo». In mezzo, ovviamente, c’è anche la posizione del segretario reggente, Maurizio Martina, che oggi vedrà Fico con una delegazione composta dai due capigruppo e da Orfini e che dal Friuli chiede «la fine di ogni politica dei due forni e di ogni ambiguità per confrontarsi in leale collaborazione».
I pentastellati hanno tanti difetti, ma non sono stupidi: sanno che, se vogliono avere qualche chanche di riuscire, devono trattare direttamente con Renzi. E così, nei giorni scorsi, sono stati diversi gli abboccamenti, non smentiti, con il suo fidato braccio destro, il ministro Luca Lotti, che nelle settimane passate ha tenuto aperto anche il «forno» del centrodestra, vedendosi a pranzo con Gianni Letta e Confalonieri.
Ma proprio da Renzi sembra arrivare la pietra tombale definitiva su ogni spiraglio di trattativa: «Per fare una maggioranza con i nostri voti, l’M5S dovrebbe convincere almeno il 90% dei gruppi Pd…», dice ai suoi. E dato che Renzi i gruppi li controlla in modo ferreo è come dire: senza di me non si farà nulla.
NB: Questo articolo è stato pubblicato il 24 aprile 2018 sul Quotidiano Nazionale.
10. “Tocca a loro”. I renziani sperano che si formi un governo tra Lega e 5Stelle.
Uno spettacolo pietoso. Di Maio sdogana Berlusconi, anche se non può dirlo». Lo afferma Andrea Marcucci, capogruppo al Senato del Pd, e lo dice con parole identiche Ettore Rosato, vicepresidente di marca dem della Camera. Per il Pd di schiatta renziana, dunque, «l’M5S sta facendo solo tattica» e l’accordo dei pentastellati con il centrodestra (Lega, ma anche con FI) «era (ed è ancora) a un passo». Questa la linea. Al Nazareno, di fatto, speravano che già ieri pomeriggio nascesse l’accordo, pronti a bombardarlo come ‘l’inciucione’. Il gusto sottile è quello di ritorcere contro Salvini e Di Maio tutti gli anni di insulti contro i governi figli del «patto del Nazareno». Il famoso #toccaaloro, del resto, va per la maggiore tra i renziani (e, va detto, anche nella base dem) ed è anche il modo migliore per poter continuare a far pascere il Pd sul colle dell’Aventino. Il mood viene perfettamente esplicitato dalla Enews di Matteo Renzi, ieri tornato a farsi sentire anche con questo strumento dopo qualche settimana di assenza. Ieri, peraltro, Renzi era a Roma, al Senato, e – ironia della vita – proprio a palazzo Giustiniani, dove si tengono le consultazioni dell’esploratrice Casellati, ma solo perché ha in quel palazzo gli uffici che gli spettano in quanto ex premier. «Tocca ai vincitori fare un governo, sempre che siano in grado», scrive l’ex premier. Poi denuncia l’inattività delle Camere, con toni un po’ “anti-Casta”, «perché fino a quando non si forma il governo le commissioni non partono e l’aula procede a rilento». Renzi, in realtà, pensa ai “tempi lunghi”: invita «a sbarrare nell’agenda le date 19-20-21 ottobre 2018. Quel fine settimana tornerà la Leopolda. Si chiamerà ‘La prova del nove’ e il titolo non ha bisogno di molte spiegazioni». Insomma, Renzi immagina che, per la fine di ottobre, il quadro sarà abbastanza chiaro: ci sarà un governo – di centrodestra o istituzionale, difficilmente uno tra Pd e M5S – si saprà se sono in vista elezioni anticipate o meno e il Pd avrà già deciso se avrà un segretario eletto in Assemblea (quella prevista per il 21 aprile è stata rinviata a data da destinarsi) o con le primarie e lui avrà deciso su chi puntare. Per l’oggi, invece, ripartirà l’assalto di tutti quelli che, nel Pd e fuori, chiedono, di fatto, un accordo con i 5Stelle. Napolitano dovrebbe lanciare un appello domenica, Prodi e Veltroni hanno parlato (ma potrebbero tornare a farlo), i ministri dem non vedono l’ora. Infine, la minoranza interna (l’area Orlando-Cuperlo) ha chiesto, proprio ieri e a gran voce, la convocazione urgente della Direzione per «discutere la nuova fase politica», ma l’obiettivo finale è mettere Renzi in minoranza, o nell’angolo, e ribaltarne la linea, aprendo al dialogo con i 5Stelle.
NB: Questo pezzo è stato pubblicato sul Quotidiano Nazionale il 19 aprile 2018.
11. Martina apre a un’ipotesi di governo con i 5Stelle, i renziani frenano preoccupati.
Ettore Maria Colombo – ROMA
Il forno del Pd inizia a scongelarsi e a sfornare pizze. L’M5S risponde e coglie la palla al balzo per riscaldarlo. Per ora, la presupposta corrispondenza di amorosi sensi va in scena su un tema che è una premessa, i programmi. Di mattina presto, il segretario del Pd, Maurizio Martina, scrive un post su Facebook. Stimolato, pare, da un editoriale del direttore di Repubblica, Mario Calabresi, che chiedeva e al Pd di “chiarire le sue priorità per il Paese”, Martina di “proposte concrete” ne snocciola ben tre: “povertà, famiglie e lavoro”. Nello specifico, sulla povertà si tratta, per Martina, di “allargare il Reddito di Inclusione per azzerare la povertà assoluta in tre anni e potenziare le azioni contro la povertà educativa”. Sulla famiglia di “introdurre l’assegno universale per le famiglie con figli, la carta dei servizi per l’infanzia e nuovi strumenti di welfare per l’occupazione femminile, ridurre le diseguaglianze e sostenere il reddito dei ceti medi”. Sul lavoro Martina chiede di “Introdurre il salario minimo legale, combattere ildumping salariale; tagliare il carico fiscale sul costo del lavoro a tempo indeterminato, favorire assunzioni stabili con priorità a donne e giovani, introdurre norme di genere”.
Le proposte del Pd, a dirla tutta, non sono inedite, anzi, ma il tempismo, in politica, è tutto. Il guaio è che è proprio il tempo che i renziani rimproverano al segretario reggente: “Proposta sbagliata e controproducente nei tempi e nei modi” la bollano subito, nel Transatlantico di Montecitorio. Del resto, se mai il Pd vorrà e potrà aprire ai 5Stelle – come, peraltro, diversi esponenti del Pd sostengono e infatti Orlando subito supporta l’iniziativa di Martina – “l’operazione se la deve intestare Matteo”, dicono i suoi. Il quale Renzi, ieri sera presente al Senato per ascoltare l’informativa del premier Gentiloni sulla Siria, aspetta. Che cosa? “Che Di Maio e Salvini vadano, anche ufficialmente, a sbattere – spiega un alto dirigente del Nazareno – poi che i 5Stelle vengano al tavolo con noi col capo cosparso di cenere e, infine, che passi il cadavere, politicamente parlando, del loro candidato premier Di Maio”. Solo a quel punto, anche per i renziani, potrebbe essere possibile aprire la trattativa con il forno dell’M5S. Sempre che, per disdetta, anche l’ipotesi di un governo del Presidente – ipotesi che il Pd è pronto ad appoggiare – si risolva in un nulla di fatto.
La proposta di Martina viene colta al volo dai 5Stelle. I due capigruppo pentastellati, Giulia Grillo e Danilo Toninelli, scrivono una nota congiunta per dire che “La proposta di Martina rappresenta un’iniziativa utile ai fini del lavoro che sta svolgendo il comitato scientifico per l’analisi dei programmi presieduto dal professor Della Cananea. Abbiamo sempre detto che vogliamo partire dai temi”. Sembra fatta, ma ecco che, appunto, parte la contraerea renziana. Il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, dice che “i punti, tutti condivisibili, li andremo a esporre al presidente incaricato, come a chiunque incontreremo”. E il coordinatore della segreteria dem, Lorenzo Guerini, sottolinea che “i punti sono alcune questioni di merito che il Pd pone di fronte al Paese rispetto alle chiacchiere altrui, nulla di più”. Lo stesso Martina fa marcia indietro: “Le tre proposte del Pd sono per gli italiani, non per questo o quel partito”. Insomma, come si dice a Roma, “stiamo di capo a dodici”. Del resto, spiega sempre Guerini a un amico, “la politica è una scienza esatta e i passi vanno fatti uno al giorno e uno alla volta”. Se poi M5S vorrà davvero andare a Canossa, cioè al Nazareno, partirebbe tutt’altro film. NB: Questo articolo è stato pubblicato il 18 aprile 2018 sul Quotidiano Nazionale.
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